“Se vuoi la pace, dimostra di essere preparato alla guerra! Quelli che non dimostrano di essere preparati alla guerra, non hanno pace e hanno la disfatta e la sconfitta.”
[Benito Mussolini, discorso di Udine, 1922]

“Se vuoi la pace prepara la guerra, dicevano certi antenati. E io invece la penso come i pacifisti di tutto il mondo di oggi: se vuoi la pace, prepara la pace.”
[Enrico Berlinguer, intervista a Renzo Carra, 1983]

Cari lettori, queste sono alcune interessanti testimonianze storiche che si possono trovare sul web. In effetti, nulla quanto il concetto di “Pace” ha saputo fomentare una tale contraddizione di forze e pensieri nel corso della storia, instillandosi a volte come un siero, a volte veleno, nella linfa di ideologie e correnti filosofiche.

Del resto, il XX secolo è l’esempio più dissonante di esperienze ideali e materiali in termini di pace, il secolo delle bombe atomiche e dei sessantottini, dei genocidi e dei fiori nei cannoni. Con l’evolversi della società, l’avanzare delle culture e il globalizzarsi di tecnologie e mezzi di comunicazione, anche lo scontro fra civiltà è divenuto via via più esiziale ed inesorabile, arrivando ad esprimere il conflitto come imprescindibile divenire storico, come già Hegel aveva profetizzato.

Eppure, di quelle macerie ancora fumanti, di quei cadaveri ancora caldi non resta che la pallida indifferenza dei sopravvissuti. Quasi come se in quegli occhi pregni di violenza e tragicità fosse rimasta impressa l’immagine della morte, un sepolcro per anime avvizzite nella cecità del rancore.

La pace sia con te, si mormora nelle chiese, fra pareti che contengono lo sdegno ipocrita del prossimo, mentre si pensa a consumare la vendetta. Nemici, antagonisti, diversi, non più umani: ecco cosa siamo diventati, nell’ansia di non riconoscerci, dell’ostacolarci l’un l’altro, del sopraffarci. La lotta di classe, la rivoluzione, l’esportazione della democrazia, come già l’imperialismo e il colonialismo, sono sovrastrutture politiche le cui fondamenta non fanno altro che poggiare sulla guerra, l’omicidio, l’eliminazione.

Un meccanismo che rende perpetua la dicotomia fra oppressi ed oppressori – al più capovolgendola – senza tuttavia essere in grado di fornire una effettiva risposta al significato di Pace.

Chi costruisce la pace? Chi sfrutta, stermina e reprime? Oppure chi desidera insorgere, esorcizzare col sangue e cibarsi del frutto della morte? C’è una profonda incoerenza intorno a questo termine, e idee molto vaghe e confuse; colpa anche dei movimenti pacifisti, che non hanno saputo offrire la continuità necessaria a radicarsi nella coscienza collettiva più di una moda o di uno stereotipo.

Nessun atto di violenza, per quanto profondo, ha mai saputo consegnare un’eredità di progresso duraturo e benefici per molti, finendo inevitabilmente per mutare i rapporti di potere e nient’altro. Chi desidera l’uguaglianza, la parità di diritti, il bene comune dovrebbe prima di ogni altra cosa partire dal concetto di pace e declinarlo nelle forme concrete di un sentire necessario, un vivere coerente.

Parlare di pace propugnando la guerra equivale invece a salire sul piedistallo del torto; e questa è la pleonastica essenza di un’eredità fatta di superficialità e sterili indottrinamenti, per nulla utili alla causa quando addirittura non dannosi.

Per questo oggi parlare di pace è così difficile, oggi che viviamo l’epoca degli imperialismi americani, delle esercitazioni NATO e delle esecuzioni ISIS, oggi che intrappolati nella cortina ideologica dell’intolleranza non troviamo un terreno che non sia di scontro, un dialogo che non sia litigio, una mano che non si chiuda in pugno.

In questo mondo di censure e discriminazioni, immaginare di opporre il pragmatismo dell’utopia alla violenza della repressione è il crepuscolo degli dei che conduce all’estinzione di ogni velleità. Ma se ancora un po’ di spazio è concesso a chi si pregia di voler consumare un anelito di libertà, mi sia lasciato ricordare che, così come l’uomo ha inventato la guerra, così ha saputo scandire la parola eiréne; così come un destino ci accomuna verso l’annichilimento dell’esistenza, allo stesso modo sarebbe nostro compito quello di emancipare le nostre vite da ciò che le corrode, le mistifica, le rende prive di valore.

Arrivederci dunque, lettori cari, e grazie per tutte le volte che mi avete concesso la pace permettendomi di giungere a voi attraverso queste righe. Vi sia luminoso il futuro, e rigoglioso come virgulti d’ulivo il presente.

Vostro,
Emanuele Tanzilli

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