Mercoledì 9 giugno è uscita in libreria, per Edizioni Gruppo Abele, la seconda edizione de “La Palestina nei testi scolastici di Israele. Ideologia e propaganda nell’istruzione” di Nurit Peled-Elhanan. La prima pubblicazione risale a 10 anni fa e, nonostante gli anni trascorsi, la questione palestinese prosegue con una continua e sistematica oppressione della popolazione palestinese. Lo scopo del libro è di fornire una riflessione sulla propaganda anti-araba e anti-palestinese trasmessa fin dalla scuola e sul modo in cui i palestinesi vengono percepiti dagli israeliani.
Nurit Peled-Elhanan, attivista e filologa israeliana, lavora come professoressa di lingua ed educazione all’Università Ebraica di Gerusalemme. Nel 2001 ha ottenuto dal Parlamento Europeo il Premio Sacharov per la libertà di pensiero e i diritti umani.
Peled-Elhanan si è dedicata a vari scritti sulla questione dell’occupazione israeliana. In questo libro, ha svolto un’analisi di un campione di testi scolastici e manuali di storia, geografia ed educazione civica pubblicati tra il 1996 ed il 2009, scelti in base alla loro popolarità tra gli insegnanti. I libri sono stati pubblicati dopo gli accordi di Pace di Oslo tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese. L’autrice ha analizzato la retorica ed i messaggi che vengono trasmessi dai testi scolastici ed il modo in cui vengono sfruttati determinati discorsi con l’intento di creare una separazione tra il gruppo dominante e quello percepito come una minaccia.
https://ism-czech.org/2016/03/07/lecture-qa-nurit-peled-elhanan-sarachov-prize-laureate-on-palestine-in-israeli-school-books-sunday-13-march-at-530pm-at-cafe-kampus-prague/
Peled-Elhanan pone l’attenzione sulla capacità dello Stato di instaurare determinate forme di percezione della realtà all’interno della società attraverso i testi scolastici. L’autrice, nella prefazione del libro, cita le parole dello storico Keith Jenkins: «La storia non la si racconta né la si legge mai con innocenza perché essa è sempre per qualcuno». Le narrazioni non sono neutrali, hanno lo scopo di trasmettere determinati significati. Peled-Elhanan, sempre nella prefazione, afferma che «nonostante tutte le altre fonti di informazione, i testi scolastici costituiscono potenti mezzi mediante cui lo Stato può configurare le forme di percezione, classificazione, interpretazione e memoria necessarie a determinare identità individuali e nazionali».
L’autrice analizza come Israele, nonostante i suoi tentativi di presentarsi come una democrazia, sia in realtà un’etnocrazia (o democrazia etnica): al suo interno l’elemento principale per poter ottenere un riconoscimento dei propri diritti non è la cittadinanza ma l’appartenenza etnica. La cittadinanza ed i diritti legati ad essa vengono riconosciuti solo agli ebrei, mentre gli arabi che si trovano entro i confini dello Stato ed i palestinesi della Cisgiordania occupata sono registrati come apolidi. Questo sistema vale anche per l’istruzione: i libri di testo – e più in generale il discorso politico e socioculturale – definiscono il paese come Stato di tutti gli ebrei, non come Stato dei suoi cittadini. Il sistema scolastico in Israele non prevede l’insegnamento della storia nazionale palestinese, né agli alunni ebrei né a quelli arabo-palestinesi.
Ciò che condiziona una democrazia etnica è il nazionalismo etnico, che si basa sull’idea di una nazione con un’origine, una lingua e una cultura comuni e rivendica la proprietà di un determinato territorio. Nella realtà, la moderna nazione ebraica non aveva una lingua, una cultura ed una storia comuni e sono stati sfruttati l’istruzione, la letteratura ed i media per poterle produrre, in modo da dare vita ad una memoria e ad un’identità etnica collettive. I testi scolastici hanno aiutato ad inculcare nelle teste degli alunni ebrei l’idea di avere un’origine comune nella terra di Israele, con una rappresentazione degli ebrei moderni come degli “indigeni” che tornano nella loro patria – in quanto discendenti degli ebrei biblici e, quindi, figli di Israele. La creazione di un’identità collettiva è centrale e avviene anche mettendo da parte la narrazione dei fatti reali e un’analisi storica oggettiva e fondata. La produzione di una memoria collettiva ha lo scopo di dare luce ad una distinzione tra l’in-group (il proprio gruppo di appartenenza) e l’out-group (il gruppo nemico). Così aumenta il senso di appartenenza e vengono alimentate le ostilità. Un altro elemento fondamentale e strettamente legato alla memoria collettiva è l’identità. Come spiega Peled-Elhananvari, la volontà di instaurare l’identità ebraico-israeliana insieme ad una memoria collettiva implica delle strategie di negazione di memorie e identità altre. Così si crea l’esclusione dell’Altro, a favore del Noi. L’Altro viene percepito come una minaccia, un ostacolo. Per poter costruire un’identità e una memoria collettive si è cercato di cancellare le tracce della presenza dei palestinesi sulla terra e ciò è visibile nei libri scolastici: i palestinesi vengono esclusi o vengono presentati come “un manipolo di primitivi che pesa sullo sviluppo o che minaccia la sicurezza e la situazione demografica”.
I vari testi scolastici analizzati differiscono tra loro ma hanno lo stesso ruolo: la trasmissione dell’ideologia sionista e del diritto storico degli ebrei sulla terra di Israele/Palestina.
L’autrice ha elencato gli assunti su cui si basano i testi scolastici israeliani: il diritto storico degli ebrei su Israele e la minaccia rappresentata dagli arabi – i quali sono avversi agli ebrei (come il resto del mondo) e possiedono 21 paesi, a discapito degli ebrei che ne hanno solo uno; la rappresentazione dei cittadini palestinesi come un problema demografico che deve essere controllato; la desiderabilità di uno Stato ebraico, con una maggioranza ebraica ed il controllo da parte di Israele.
In Israele è diffuso un discorso anti-arabo a causa del quale il termine “arabo” viene associato all’idea di “sporcizia, terrorismo, primitività, oppressione delle donne, sovra crescita demografica e fondamentalismo”. Tale discorso si concentra soprattutto contro ai musulmani. Nel caso degli arabi cristiani, il termine “cristiano” è visto positivamente, collegato al discorso sulla civiltà occidentale, descritta come caratterizzata da sviluppo, ricchezza, bellezza e buone maniere.
Interessante è anche l’utilizzo di una terminologia antica e sacra nell’ambito del sionismo secolare, sia in passato che oggi. Ad esempio, l’espansione e la confisca della terra ai palestinesi sono dette “Redenzione di Sion (lo stato di Israele)”. Questi termini portano a percepire il sionismo secolare come un movimento di origine divina, legittimato ad andare oltre alle convenzioni umane, etiche e giuridiche.
Molti testi scolastici rifiutano la versione palestinese della storia e non ne parlano, inoltre spesso viene manipolato il passato. L’autrice sottolinea l’uso di stereotipi e pregiudizi per descrivere l’Altro. Dai manuali emergono “la disumanizzazione, l’emarginazione, la caratterizzazione attraverso aspetti negativi, le etichettature politiche e la comparazione tra gruppi”. I testi scolastici hanno una visione estremamente etnocentrica.
Gli arabi vengono rappresentati attraverso simboli razzisti o immagini che li classificano come terroristi, profughi, o contadini primitivi. Viene prodotta una classifica etnica nella quale è presente una contrapposizione tra gli israeliani – o ebrei (l’in-group dominante) – e i “non-ebrei” – cioè gli “arabi” (l’out-group, definito solo negativamente). Nei manuali di geografia, per esempio, la dicotomia tra ebrei ed arabi indica il progresso, da una parte, e l’arretratezza, dall’altra; inoltre viene illustrato attraverso le cartine l’incompletezza del progetto sionista. Oppure i manuali di storia presentano le azioni israeliane come moralmente giuste e consone alle norme, mentre quelle palestinesi sono strane o immorali. Secondo la concezione trasmessa, Israele reagisce all’ostilità araba, mentre gli arabi uccidono gli israeliani.
Cindy Delfini