Il Sud America, negli ultimi cinque anni, è diventato l’emblema della nuova frontiera da chiudere: flussi di migranti e carovane di disperati salgono il continente per approdare negli Stati Uniti, minacciati dalla povertà e dalla disoccupazione.
In cinque anni, infatti, 2,3 milioni di cittadini hanno lasciato il Sud America: si parla di diaspora, di invasione, di esodo, di migrazione. Il presupposto basilare di questi transiti indesiderati è la crisi umanitaria ed economica che accomuna Africa e Sud America, Mediterraneo e Pacifico e tanti altri popoli che per anni hanno patito sfruttamenti dei colonizzatori.
Dunque nessuno stupore se ora i Paesi sviluppati, diventati tali dopo anni di colonialismo e neocolonialismo, si trovano alle porte i Paesi sotto-sviluppati o in via di sviluppo pronti a chiedergli il conto con tanto di scontrino.
L’emergenza migranti, che in Europa ha avuto come conseguenza il rigurgito di governi populisti di destra, xenofobi, nazionalisti e sciovinisti, si è estesa e si estenderà in altri territori e non ci saranno manovre politiche o decreti sicurezza che tengano per risolvere un fenomeno migratorio che affonda le proprie radici in decenni di sfruttamento, abusi, terre lottizzate, speculazioni e guerre in cui i vincitori invasori poco lungimiranti, che un tempo esultavano, oggi sono i nuovi invasi ma pieni di soldi.
L’ansia di crescita economica, a danno di altri popoli, oggi ha reso l‘aiutiamoli a casa loro un terno al lotto.
Direzione Stati Uniti: chi sono i migranti delle carovane del Sud America
La maggioranza proviene dall’Honduras (si stima il 75%), da El Salvador, dal Nicaragua, Venezuela, Guatemala, Perù, Brasile. Carovane di latinos partono continuamente da mesi, attualmente bloccati in Messico e
«Non sarà permesso loro di entrare negli USA finché le loro istanze non saranno individualmente approvate da una corte. Rimarranno tutti in Messico», come si legge in un tweet di Donald Trump.
È un movimento migratorio spontaneo: code di migranti in transito a piedi si snodano lungo le strade del Sud America, scappano dalla fame, dalla povertà e condividono il cammino per ragioni di sicurezza. Attraversano il Chiapas fino a raggiungere le frontiere con gli USA dove sono momentaneamente stanziati e cercano sistemazioni provvisorie in attesa di trasferirsi in Nord America.
San Diego, Città del Messico, Tijuana sono attualmente il limbo dei migranti, in cui si tenta di fare accoglienza nel migliore dei modi, come nel caso dell’Albergue Hermanos en el Camino di Ixtepec, gestito da volontari.
Nel frattempo si attende una risposta dagli Stati Uniti. Fino a quando quest’accoglienza improvvisata ed emergenziale potrà durare?
La situazione è drammatica in Messico, il cosiddetto ponte umanitario: solo a Tijuana sono bloccati quattromila migranti e si prevede prossimamente l’arrivo di altri diecimila e come affermato dal sindaco Juan Manuel Gastelum la città non ha strutture né mezzi idonei per un’accoglienza di tale portata.
Se prima le migrazioni erano interregionali nell’America Latina, ora si parla di emigrazioni, in quanto le mete dei migranti sono Stati Uniti, Canada e chi può Europa.
Si affidano spesso alla criminalità organizzata (che trova linfa vitale nella precarietà e marginalità sociale). Prima si rischiava la vita per attraversare la frontiera su La Bestia, il treno di merci che collega Sud e Nord America: i migranti si aggrappavano sui tetti dei vagoni, legando i loro bambini con funi e camuffandosi tra la plastica e le merci per passare la frontiera, resistendo così per giorni nonostante le intemperie e la stanchezza. Eppure La Bestia era il mezzo di transizione più economico e accessibile.
Questo stratagemma ha funzionato fino al 2014 quando il governo messicano arrestò 6.000 persone che viaggiavano sul quel treno, rimpatriandoli e intensificando i controlli con il programma Frontera Sur.
«Welcome to Tijuana, con il coyote passi la dogana» (Manu Chao)
Non potendo più viaggiare con La Bestia i migranti cercano altre vie, più nascoste, più illegali, si affidano ai trafficanti che promettono l’arrivo a destinazione a prezzi molto alti. Si tratta dei coyotes, trafficanti messicani che lucrano sull’immigrazione clandestina che muovono perfino tramite canali e conoscenze politiche.
Le vittime che si affidano a questo sistema subiscono furti, maltrattamenti, stupri e molti incontrano la morte a causa delle pessime condizioni di viaggio.
C’è chi muore nel Mediterraneo, chi su La Bestia, chi tra le mani dei trafficanti, ma l’indifferenza dei capi politici di turno è la stessa. Trump è troppo impegnato a investire capitali finanziari con i sauditi per destinare qualche miliardo di troppo all’accoglienza. L’unica soluzione che è riuscito a elaborare è la costruzione di un muro con il Messico.
Altra soluzione che l’uomo più potente del mondo è riuscito a pensare è dare l’ordine ai militari americani che difendono la frontiera di sparare ai migranti che la oltrepassano.
Se Trump non considera questa migrazione un suo problema, invece lo sta diventando per il Messico, che pur nella sua povertà sta cercando di accogliere secondo le proprie possibilità. Si badi bene: accoglienza non statale, perché in Messico la prima accoglienza viene svolta dalle ONG come l’UNHCR e soprattutto dalla società civile. Il Governo messicano ha accolto in passato solo con deleghe e rimpatri dell’Istituto di migrazione messicano (INM) i cui abusi sono denunciati da Amensty International.
Tijuana: la linea di confine tra due mondi
Tijuana è la città che storicamente avverte di più il peso di questa divisione territoriale, in particolare dal 1971 quando l’amministrazione Clinton iniziò la prima edificazione di una lastra d’acciaio di 30 km per bloccare l’avanzata dei latinos provenienti da San Diego e Tijuana, i punti più trafficati.
Dopo quasi cinquant’anni non è possibile definire i primi anni ’70 come un’altra epoca, in quanto quel progetto di divisione assurdo è stato ripreso e osannato tutt’oggi dall’amministrazione Trump.
Così Tijuana è diventata il simbolo di un mondo vecchio e di uno nuovo che si toccano senza mescolarsi, della ricchezza statunitense che esclude e della difficile realtà messicana che nonostante tutto include cercando di dare una prima accoglienza. L’umiltà e l’arroganza, la banalità del potere e tutte le dicotomie del caso. Un muro vigliacco che nasconde dalla vista problemi che non svaniscono, come nascondere la polvere sotto il tappeto.
Il piano autoreferenziale di Trump, interessato solo della crescita economica del proprio paese e dissociatosi dal resto del continente semplicemente costruendo frontiere, non ha funzionato. Tantomeno la criminalizzazione della solidarietà e la disumanizzazione politica saranno d’aiuto per risolvere le crisi dei Paesi da cui si fugge.
Il capitalismo ha potuto giovare alla solidità economica degli USA, un’economia a tratti macchiata di sangue degli schiavi africani e dell’impoverimento energetico dell’America Latina, ma il capitalismo è un vaso di Pandora da cui escono innumerevoli problemi rimasti nel tempo nascosti e che una volta verificatisi non si possono occultare dietro un muro o in un centro di detenzione.
Melissa Bonafiglia