Moby Dick uno di quei romanzi

Moby Dick (Moby Dick, or the Whale) è uno di quei romanzi che tutti noi, almeno per sentito dire, conosciamo. Uno di quei romanzi che a scuola ti invitano cordialmente a leggere e recensire per le vacanze estive. Quando magari nelle tue vacanze estive vorresti fare tutt’altro, o semplicemente leggere ciò che vuoi. È uno di quei romanzi che solo col tempo e a distanza di tempo scopri essere un capolavoro letterario di allegorie.  

Moby Dick (or the Whale) è infatti ad oggi considerato il massimo esempio di romanzo americano dell’Ottocento. Sottovalutato ed incompreso ai tempi delle sue prime pubblicazioni (1851), negli anni Venti dell’ultimo secolo si fa portavoce di una narrativa tutt’altro che da sottovalutare, divenendo uno delle pietre angolari della tradizione letteraria americana

Moby Dick, l’opera maestra di Herman Melville 

Conoscere più da vicino l’autore Herman Melville è come iniziare ad addentrarci nella lettura di Moby Dick in modo più consapevole. Scrittore, poeta e critico letterario statunitense, nasce a New York il 1° agosto del 1819. Fin da subito le sue grandi passioni, oltre ai libri e alla letteratura, sono i racconti di avventura del padre. Il padre, un ricco commerciante americano, amava appassionare il figlio con storie sempre al limite tra realtà e la fantasia, nelle quali gigantesche onde, animali marini e alberi di navi fluttuanti, fungevano da protagonisti. 

Ma dopo una vita di agi e stabilità economica, nel 1830 l’attività del padre fallisce e la vita dell’autore cambia. La mancanza di una prospettiva lavorativa stabile, unita al desiderio di viaggiare, spingono il futuro scrittore ad imbarcarsi come mozzo su una nave ancorata al porto di New York, in partenza per Liverpool.

Ed è da questo momento che iniziano le avventure marinaresche dello scrittore, di fondamentale ispirazione per gli scenari dei suoi successivi romanzi come: “Redburn: il suo primo viaggio” (Redburn: His First Voyage), il racconto di “Taipi” (Typee) e la sua continuazione “Omoo” e “Giacchetta bianca o il mondo visto su una nave da guerra” (White Jacket: or, The World in a Man-of-War).

Moby Dick invece, frutto di un anno e mezzo di lavoro, sarà scritto e redatto in solitaria, in una fattoria a Pittsfield (Massachusetts). L’opera, resa possibile grazie ad un complesso e lungo viaggio sia interiore che in mare, lo proietterà nella storia della letteratura americana e mondiale, forse un po’ troppo tardi. Morirà la mattina del 28 settembre del 1891 nella sua casa di New York. 

La storia della balena bianca  

Moby Dick è la storia della spedizione di una nave baleniera, il Pequod, in preda all’inseguimento della mitica “balena bianca”, raccontata in prima persona dal protagonista Ismaele. Al comando della nave c’è Achab, un capitano dall’estro e dalla personalità originale e carismatica, che però vive con un’ossessione: vendicarsi contro un grosso capodoglio bianco, il quale durante una precedente battuta di caccia, gli aveva strappato una gamba. 

In questa sua impresa riesce a coinvolgere marinai di tutte le razze e religioni, suggestionati dalla forza del suo carattere e dal fascino demoniaco del suo odio smisurato. Il Pequod supera l’Africa ed entra nell’Oceano Indiano; incontra altre baleniere come Rachel e Delight; il viaggio nel complesso dura diversi giorni, finché finalmente Moby Dick viene avvistata. 

La caccia alla balena, dalla durata di tre giorni, sarà feroce e piena di sangue, dall’esito mortale. Al disastro riesce a scampare solo Ismaele, il più distaccato tra i partecipanti dell’impresa: la bara che il suo amico, l’indiano Queequeg, ha costruito per sé, sarà la sua fortunata scialuppa. 

Uno di quei romanzi capolavori di allegorie 

Già da queste brevi righe intuiamo che Moby Dick è uno di quei romanzi che sotto alla definizione “racconto di viaggio”, cela dietro di sé una complessità strutturale ed allegorica, di cui è difficile decifrare ogni immagine. L’alternarsi di scene di diversa natura che spaziano dalla caccia alla balena bianca ( in parte ricostruita su fatti realmente accaduti), alle riflessioni più personali del protagonista e dell’autore, ai riferimenti biblici, ai discorsi sulla fede in Dio, al destino incerto tra Bene e Male e alle digressioni scientifiche, recano nello stesso lettore un senso di smarrimento

Questo senso di smarrimento si sposa perfettamente con l’ansia da parte dei protagonisti di scoprire l’ignoto, di affrontare la natura e i suoi giganti, sottovalutandone in parte i pericoli. Se la terra inizialmente è il luogo dove la vita sembra aver assunto le sembianze di una routine noiosa e poco stimolante, il mare diventa, utopicamente, il luogo del possibile, dell’avventura, dell’esplorazione e della realizzazione

Ma quel mare omerico e biblico è in realtà il regno dei mostri, del terrore e delle immense profondità che sfuggono all’uomo. È in quel mare che l’uomo, spinto dalla sua sete di vendetta, ha dato la caccia ad un’animale di per sé inafferrabile, portandolo negli abissi della sua stessa assurdità. 

Marta Barbera

Immagine di copertina: Criptozoo

Marta Barbera
Classe 1997, nata e cresciuta a Monza, ma milanese per necessità. Laureata in Scienze Umanistiche per la Comunicazione, attualmente studentessa del corso magistrale in Editoria, Culture della Comunicazione e della Moda presso l'Università degli Studi di Milano. Amante delle lingue, dell'arte e della letteratura. Correre è la mia valvola di sfogo, scrivere il luogo dove trovo pace.

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