Russia, due anni dopo. Al netto di tutte le dietrologie che volevano un regime più debole e instabile rispetto al periodo pre-bellico, Vladimir Putin è ancora lì, sullo scranno più alto del Cremlino per il suo quinto mandato presidenziale. Un plebiscito che in molti considererebbero scontato ma che sancisce definitivamente la consacrazione di quella che non è più una Repubblica presidenziale bensì un vero e proprio regno: il regno di Putin.
Con l’87,2% dei consensi, lo zar si impone su una serie di non-avversari, cioè coloro i quali non rappresentando una minaccia concreta sono stati “selezionati” per rendere la corsa presidenziale più che una formalità. Anche l’affluenza, al 77%, è cresciuta di circa dieci punti percentuali rispetto alla tornata elettorale precedente. Merito del “sistema” russo, il quale ha previsto il ricorso al voto elettronico, soprattutto nelle aree periferiche (come la Siberia) e al voto domiciliare nelle zone di guerra. Non sono mancate le proteste, acuitesi dopo la morte del principale oppositore di Putin, Naval’nyj, le quali però non riescono ancora a scalfire la verticale e complessa architettura del potere costruita in oltre vent’anni di permanenza al potere dal Presidente neo-eletto.
Nel breve discorso inaugurale non è emerso nulla di nuovo rispetto a quanto ci ha abituato la retorica putiniana di questi due anni di guerra. Valori, tradizioni, richiami alla stabilità e all’unità e una timida e condizionata apertura verso l’Occidente. Il Presidente è pronto al dialogo – anzi, lui afferma di non avervi mai rinunciato – ma alle condizioni della Russia. L’intervento presidenziale è stato efficacemente sintetizzato dalla giornalista Ekaterina Vinokurova con queste parole: «orgogliosi del passato, fiduciosi del presente e orgogliosi del futuro».
Nonostante le parole del neo-eletto “zar per sempre” lascino intendere la totale assenza di cambiamenti all’interno del sistema di potere russo, di eventi destabilizzanti ne sono successi nel corso di questi due anni. Su tutti la fine del braccio destro – armato – del suddetto sistema di potere, la Wagner, i mercenari guidati dal “cuoco” di Putin, Evgeny Prigozhin, il quale è perito in un “incidente aereo” tutto da chiarire. I mercenari, ora dipendenti in tutto e per tutto dal governo russo, rappresentavano una proiezione di potere e potenza fondamentali per la geopolitica russa, in quanto impegnati all’estero in missioni aventi il preciso fine di accrescere l’influenza del Paese fuori dai confini nazionali.
La guerra in Ucraina, poi, ancora lontana dal famigerato “evento decisivo” in grado di cambiare le sue sorti continua a rappresentare un peso per la Russia e per lo stesso Presidente, il quale senza un esito netto e incontrovertibile dato dal campo, faticherà a normalizzare i rapporti con l’Occidente. Una normalizzazione necessaria anche per la stessa economia russa, in crisi e in perdita, come dimostra il bilancio Gazprom per la prima volta “in rosso” dopo 25 anni. Tante sfide e una sola certezza, insomma, ad affrontarle – per ora – ci sarà ancora Vladimir Putin.
La Russia, un castello che non crolla
Dall’inizio della guerra in Ucraina, analisti e possessori della sfera di cristallo avevano sancito il crollo del sistema di potere di Vladimir Putin da lì a poco, a causa dell’isolamento diplomatico ed economico imposto dalle sanzioni europee. Un verdetto chiaro, una prospettiva che in quel momento sembrava non solo desiderabile ma anche veritiera a giudicare dal volume dei commerci intrattenuto tra l’Occidente e la Federazione russa. A distanza di due anni dallo scoppio delle ostilità, appare chiaro che il sistema di potere russo abbia subito sì subito un complesso ridimensionamento interno ma il quale non ha fatto altro che rafforzare e centralizzare la figura al vertice piramidale, cioè il Presidente Putin, a danno di tutti coloro che, nel corso del tempo, erano stati individuati come potenziali successori. Al di là delle evidenti difficoltà belliche ed economiche, l’architettura politica russa resta un monolite difficile da scalfire.
Tale evidenza appare ancor più chiara dai piccoli dettagli, per alcuni marginali, che è possibile cogliere dalla cerimonia tenutasi dopo la riconferma di Vladimir Putin. Uno di questi è il contenuto del sermone del patriarca Kirill, uno dei più fedeli alleati di Putin, il quale ha augurato al Presidente di vedere «coincidere la fine del proprio mandato con quella della propria vita», chiamandolo addirittura “sua altezza“. Il secondo dettaglio è un piano programmatico contenente gli obiettivi nazionali di sviluppo della Russia, fino al 2036. Un’estensione di dodici anni che mette a tacere ogni velleità di successione anche dopo l’attuale mandato.
Un castello che non solo non crolla ma che si rafforza, si arrocca. D’altronde, di oppositori credibili non se ne vede nemmeno l’ombra: da Naval’nyj, il quale aveva goduto di una “buona stella” mediatica in Occidente ma che è perito in carcere, a Prigozhin, che ha fatto il passo più lungo della gamba nonostante abbia per qualche ora fatto vacillare le certezze del Presidente. Due eventi che, assieme all’invasione dell’Ucraina, hanno determinato una trasformazione nel sistema di potere putiniano.
Dal punto di vista prettamente politico, il regime russo ha conosciuto una nuova e necessaria centralizzazione del potere, resasi fondamentale a causa dell’ammutinamento della Wagner, la successiva presa di Rostov e il tentativo di marciare su Mosca. La pulizia nei vertici dell’organizzazione paramilitare e di tutti coloro che direttamente (o indirettamente) hanno preso parte al tentativo di colpo di stato si è risolto anche in una sorta di resa dei conti tra Putin e i suoi oppositori. L’equilibrio interno è stato preservato, con molta fatica come dimostra il discorso tenuto la sera stessa del colpo di stato. La successiva morte in un controverso “incidente” di Prigozhin ha chiuso definitivamente la crisi interna, la quale ha altresì concluso l’esperienza della Wagner come arma “indipendente” dal Ministero della Difesa (nella realtà dei fatti non lo è mai stata).
Al di là degli eventi più rilevanti dal punto di vista prettamente mediatico, alcune questioni restano in sospeso ma contribuiscono comunque a sottolineare quanto il sistema russo sia complesso. L’arresto per corruzione del viceministro della Difesa, Ivarov, ad esempio, chiarisce come il collante di tale sistema sia la corruzione, la quale viene utilizzata come arma per colpire gli avversari interni. Non solo di Putin ma anche dei gruppi di potere che si avvicendano al suo fianco. Le lotte intestine, da sempre presenti all’interno del cerchio magico del Presidente, sono forse emblematiche nell’evidenziare quanto l’arrivismo renda i quadri dirigenziali russi totalmente inaffidabili (e quindi invisi allo stesso Putin).
Ecco perché da mesi il Presidente insiste nel voler creare una nuova élite tra i combattenti della guerra in Ucraina. Una teoria che trova conferma nei finanziamenti cospicui del governo e nella volontà di Putin di sostituire gli ingranaggi di quel sistema che lui stesso ha contribuito a creare con privilegi, corruzione e arrivismo. La speranza sarebbe quella di forgiare funzionari, ufficiali e burocrati fedeli, che hanno creduto sin dall’inizio nella bontà dell’operazione militare speciale inaugurata nel febbraio 2022 e che ha visto più volte la Russia andare in difficoltà anche a causa dell’inefficienza degli apparati di potere militari, da sempre quelli su cui il Presidente aveva puntato per la sua scalata al potere.
Putin, lo zar, guarda agli USA
L’invito dell’UE a contrastare i tentativi di ingerenza russa nelle prossime elezioni europee è emblematico per sottolineare il clima in cui tutte le competizioni fondamentali per il destino dell’Occidente si svolgeranno. Dalla prossima tornata elettorale dell’8 e 9 giugno al ben più decisivo confronto negli Stati Uniti dove, a meno di improbabili sorprese, saranno Joe Biden e Donald Trump a contendersi la guida dell’Occidente. Due sfide interessanti anche per comprendere l’approccio che sarà adottato, in futuro, nei confronti della Russia e della guerra in Ucraina. Il timore di un disimpegno occidentale nel Donbas è alto, soprattutto in caso di amministrazioni figlie della “stanchezza occidentale”.
Più che all’Europa, il Presidente Putin guarda con interesse e ovvia attenzione alle consultazioni americane, le quali potrebbero essere decisive (diplomaticamente) per una rapida risoluzione del conflitto ucraino. L’eventuale vittoria di Donald Trump, secondo gli scettici, potrebbe porre fine alla guerra alle condizioni della Russia e, contemporaneamente, ridimensionare le speranze europee – la cui politica sembrerebbe essere entrata in uno stato di quiescenza, se si esclude l’attivismo del Presidente francese Macron (per puro opportunismo di politica interna). Una combinazione che porterebbe ad una chiara vittoria strategica russa.
In sostanza, le elezioni presidenziali russe hanno confermato l’ennesimo mandato per Vladimir Putin. Un esito scontato, in un Paese il cui sistema di potere sta subendo una trasformazione coincidente con una spiccata e ulteriore centralizzazione del potere. La finestra sulle prossime competizioni occidentali rappresenta un altro passo che potrebbe dare maggiore stabilità alla stessa Russia, in previsione di un riflusso della questione ucraina, già messa in ombra dagli eventi in Medio Oriente, i quali stanno impegnando massicciamente l’amministrazione Biden.