Quando si parla di fatti storici avvenuti in un passato relativamente vicino nel tempo, si tende a dare una notevole importanza alle opinioni e ai racconti di chi quei fatti li ha vissuti, dei contemporanei. Una delle poche eccezioni a questo schema è il Sessantotto.
Generalmente, chiunque abbia vissuto questo momento da ragazzo tende a ricordarlo come un momento positivo, forse mischiando un giudizio politico a una generica rievocazione di ricordi di un periodo felice e di libertà.
E siccome chi l’ha vissuto ― stavolta è proprio il caso di dirlo ― “dall’altra parte della barricata” non può più dire la sua per sopraggiunti limiti di età, tocca a un’analisi storica accurata e quanto più possibile imparziale il compito di tracciare un quadro delle influenze, positive e negative, del movimento del Sessantotto nella società odierna.
Una società con più libertà…
La rivoluzione senza dubbio riuscita è quella culturale. Fu enorme, infatti, l’impatto delle istanze del movimento studentesco su una società ancora chiusa, arretrata e su una visione del mondo legata ancora a logiche antecedenti la Seconda guerra mondiale.
Visione della società che fu spazzata via nel ’68 e negli anni successivi: basti pensare alle battaglie a favore del divorzio o dell’aborto, impensabili nella società italiana pre-sessantottina, che furono portate a termine con due referendum rispettivamente nel ’74 e nell’81. O all’abolizione dei manicomi, attraverso la Legge Basaglia del 1978.
Allargando lo sguardo all’estero c’è il movimento per i diritti dei neri, che proprio nel ’68 subì un colpo durissimo con l’assassinio del leader Martin Luther King; ma anche un momento di ribalta con la vittoria ai Giochi Olimpici di Città del Messico degli sprinter afroamericani John Carlos e Tommie Smith, che sul podio alzarono il pugno in segno di protesta.
Ma la vera novità di quel periodo, destinata a segnare la società in maniera irreversibile, è lo sviluppo impetuoso del femminismo.
Già nel 1966, con la vicenda di Franca Viola (prima donna italiana a rifiutare il matrimonio riparatore), la sensazione era che le cose fossero destinate a cambiare. E proprio al Sessantotto e a quel clima culturale si devono testi fondamentali per il femminismo italiano e mondiale, come “La politica del sesso” di Kate Millet, “La mistica della femminilità” di Betty Friedan e “Sputiamo su Hegel” di Carla Lonzi. Il Sessantotto rappresenta forse, in questo senso, uno dei primi tentativi di rivolta universale per la libertà, una rivoluzione individuale e collettiva da cui nessuno era escluso.
…ma senza riuscire a cambiare la politica
Letta in questi termini, l’atmosfera culturale del Sessantotto può sembrare quasi paradisiaca. Ma se andiamo a confrontare la portata delle istanze con i risultati politici effettivamente ottenuti, i risultati possono sembrare invece piuttosto fallimentari.
Dal punto di vista dell’università, che da miccia delle proteste assunse un ruolo sempre più marginale, furono poche o nulle le vittorie degli studenti italiani. Tra queste, la possibilità di continuare gli studi anche per chi non avesse frequentato il liceo classico (il cui diploma fino al 1969 era propedeutico per l’accesso all’università).
In Francia, dopo mesi di manifestazioni, scioperi e scontri, le elezione anticipate videro la netta vittoria della destra di Pompidou, che aveva saputo attirare a sé la reazione della “maggioranza silenziosa” spaventata dal clima di tensione nel paese. Negli Stati Uniti, dopo l’assassinio di Bob Kennedy, fu il repubblicano Nixon a vincere le elezioni, e negli anni successivi al ’68 il movimento si disunì e tanti gruppetti passarono alla lotta armata, tra tutti i Weathermen e il Black Panther Party.
In Italia le conseguenze furono ancora più drammatiche. Non solo le elezioni del 1968 non modificarono il quadro di egemonia della Democrazia Cristiana, ma l’autunno caldo del 1969 e la strage di Piazza Fontana diedero il via alla triste stagione degli Anni di Piombo culminata nel delitto Moro. Di cui furono protagonisti, tra gli altri, anche tanti esponenti o gruppi della sinistra extraparlamentare emersi dalle contestazioni del Sessantotto.
Un’opinione pubblica critica
Da questo punto di vista il movimento, che in Occidente aveva assunto nelle fasi iniziali una connotazione prettamente libertaria e slegata da ogni tentativo di incatenamento, ha poi subito una fortissima ideologizzazione che ne ha in qualche modo “rovinato” gli iniziali e positivi propositi di libertà. E ne ha fornito agli scettici quell’immagine un po’ stereotipata degli “adolescenti borghesi che giocano a fare la rivoluzione”.
Anche nella cultura popolare questa raffigurazione non ha tardato a diffondersi. Molto scalpore fece all’epoca la poesia “Il PCI ai giovani!” di Pier Paolo Pasolini, riferita agli scontri di Valle Giulia tra polizia e studenti, il 1° marzo 1968. Pasolini nella poesia accusa gli studenti di fare il gioco della borghesia e afferma di schierarsi dalla parte dei poliziotti “figli di poveri”. Lo scrittore fu, per questa presa di posizione, criticato da quasi tutta l’intellighenzia di sinistra dell’epoca; ma a giudicare dai percorsi di tanti ex-sessantottini, non sembrava avere poi tutti i torti.
Un bell’esempio in questo senso è la canzone “Compagno di scuola” di Antonello Venditti, che recita:
«Compagno di scuola, compagno di niente
ti sei salvato dal fumo delle barricate?
Compagno di scuola, compagno per niente
ti sei salvato o sei entrato in banca pure tu?»
Sono tanti, infatti, i “rivoluzionari” dell’epoca finiti poi da adulti a trovare impieghi non proprio da rivoltosi, come le banche o la televisione.
La miopia sul Sessantotto di Praga
Se però c’era un Sessantotto “politico” che aveva il diritto di esistere, quello era rappresentato dalla Primavera di Praga. Lo stesso Rudi Dutschke, leader del movimento studentesco tedesco, dichiarò nel 1978 alla BBC: «Retrospettivamente, l’avvenimento importante del Sessantotto in Europa non fu Parigi, bensì Praga. Allora però non fummo capaci di vederlo».
La richiesta di un “socialismo dal volto umano”, la ribellione contro un regime oppressivo di qualsiasi libertà individuale erano oggettivamente richieste condivisibilissime, soprattutto se paragonate ai vagheggiamenti sulla rivoluzione maoista che ad un certo punto si erano impossessati delle piazze dell’Europa Occidentale. Ma furono colpevolmente ignorate.
I motivi? Una certa riluttanza ad immischiarsi nella politica dell’Est da parte dell’Occidente, per paura di compromettere i difficili rapporti che regolavano la Guerra fredda; e anche una certa indifferenza dell’opinione pubblica che, nonostante fosse già a conoscenza della deriva presa dal socialismo al di là della cortina di ferro, si ostinava a difenderlo o preferiva girare vigliaccamente la faccia dall’altra parte.
Così, lasciata in balia di se stessa, la rivolta di Praga finì nel peggiore dei modi: la deposizione di Dubček, il rogo di Jan Palach, la normalizzazione nei termini voluti dai sovietici, la fine dei sogni di libertà. Ed è in questo clima di rassegnazione che si inserisce una bellissima poesia di Jiří Kolář, artista ceco, che guarda indietro e cerca tra i colpevoli della mancata rivoluzione tutti quelli che sono stati con le mani in mano, senza contribuire alla causa:
«Avete calpestato gli ammanettati?
Datene colpa al partito.
Sputato sui morti?
Datene colpa al partito.
Vi siete ubriacati di lacrime altrui e del sudore degli altri?
Datene colpa al partito.
Di tutto, di tutto date colpa al partito, musici della notte.Datene colpa al partito.»
Simone Martuscelli