Ogni anno otto milioni e ottocento mila persone sono vittime dell’inquinamento atmosferico. Le elevate emissioni inquinanti di origine antropogenica, dovute a uno stile di vita non più ecologicamente sostenibile, fanno si che il 90% della popolazione mondiale respiri aria inquinata. Tra i continenti più colpiti da tale pandemia invisibile troviamo l’Asia e l’Europa. È proprio in queste due zone continentali che la COVID-19, la malattia provocata dal nuovo Coronavirus, ha provocato e continua a provocare più vittime. Siffatto collegamento tra due argomenti che all’apparenza sembrerebbero avere poco in comune in realtà porta i ricercatori e l’umanità intera a porsi una domanda cruciale: l’aumento del tasso di mortalità dovuto alle epidemie (tra cui la Sars-CoV-2) è in qualche modo causato dagli alti livelli di inquinamento dell’atmosfera?
Inquinamento perfetto alleato delle pandemie
Diciassette anni fa una crisi sanitaria colpì la Cina: nel novembre del 2002 nella provincia di Guangdong l’epidemia soprannominata SARS, acronimo di sindrome respiratoria acuta grave, cominciò a mietere vittime nel silenzio totale del Governo cinese. Solo tre mesi più tardi, col registrarsi di più di trecento casi di SARS, le autorità sanitarie cinesi segnalarono all’OMS tale “anormalità” sanitaria. La sindrome respiratoria acuta grave causò la morte di 774 persone in 17 Paesi, con più di otto mila contagiati in ben 26 nazioni.
Analizzando i dati sulla morbilità e sulla mortalità della SARS del 2003 e gli indici di inquinamento dell’aria (API – Air Pollution Index) in cinque regioni con più di cento casi della suddetta sindrome, uno studio pubblicato su BioMed Central individua una correlazione tra inquinamento atmosferico mortalità causata dall’epidemia di SARS. «I pazienti con SARS provenienti da regioni con API moderato avevano l’84% di possibilità in più di morire di tale sindrome rispetto a quelli provenienti da regioni con API basso. Allo stesso modo, i pazienti con SARS provenienti da regioni con API alto avevano il doppio delle probabilità di morire di SARS rispetto a quelli provenienti da regioni con API basso» si apprende dallo studio.
Immagine: ehjournal.biomedcentral.com
Per Sara De Matteis, professoressa associata dell’Università di Cagliari e membro del comitato per la salute ambientale della European Respiratory Society, «I pazienti con patologie polmonari e cardiache croniche causate o peggiorate dall’esposizione a lungo termine all’inquinamento atmosferico sono meno in grado di combattere le infezioni polmonari e hanno maggiori probabilità di morire. Questo è probabilmente anche il caso di Covid-19».
Per contrastare gli effetti delle epidemie su codesti pazienti occorrerebbe quindi ridurre drasticamente i livelli di inquinamento atmosferico. Lo conferma Sascha Marschang, segretario generale ad interim dell’Alleanza europea per la salute pubblica, secondo cui una volta superata l’emergenza Covid-19 i decisori politici mondiali dovranno mettere in atto misure efficaci contro l’inquinamento dell’aria, cominciando con il divieto di circolazione per i veicoli inquinanti. «La scienza ci dice che epidemie come Covid-19 si verificheranno con frequenza crescente. Quindi ripulire le strade è un investimento di base per un futuro più sano» conclude Marschang.
La mano dell’uomo nella diffusione delle epidemie
«Invadiamo foreste tropicali e altri paesaggi selvaggi, che ospitano così tante specie di animali e piante e all’interno di quelle creature, così tanti virus sconosciuti». David Quammen, autore di “Spillover – L’evoluzione delle pandemie”, ha le idee chiare: l’essere umano, oltre a essere causa di inquinamento, taglia alberi, uccide animali, li cattura ingabbiandoli e mandandoli nei mercati. La distruzione degli ecosistemi porta alla liberazione di virus che inevitabilmente cercano nuovi ospiti per riprodursi. Sempre più spesso quell’ospite è l’uomo. Per Peter Daszak, presidente di EcoHealth Alliancee coautore dello studio Bats-and-SARS del 2005, le molteplici ricerche inerenti i Coronavirus suggeriscono che «Questi virus stanno facendo il salto di specie ripetutamente, con sempre maggior frequenza».
A conferma di tali ricerche un articolo pubblicato su The Royal Society Publishing secondo cui dal 1980 la ricchezza delle malattie e i conseguenti focolai sono aumentati costantemente. Il 65% dei 12 102 focolai e delle 215 malattie infettive umane registratesi tra il 1980 e il 2013 (con oltre 44 milioni di casi in 219 nazioni) è composto da zoonosi ovvero tutte quelle malattie che si trasmettono dagli animali all’uomo. Thomas Gillespie, professore associato presso il dipartimento di scienze ambientali della Emory University, afferma che «I patogeni non rispettano i confini delle specie. Non sono affatto sorpreso dell’epidemia di coronavirus. La maggior parte dei patogeni deve ancora essere scoperta. Siamo sulla punta dell’iceberg».
Gillespie è impegnato nello studio inerente la riduzione degli habitat naturali ed è preoccupato delle conseguenze che l’uomo presto o tardi dovrà affrontare. Se l’inquinamento risulta essere un fattore grazie al quale i virus colpiscono con maggior violenza, l’impatto delle attività umane sugli ecosistemi naturali facilita la diffusione di nuove e sempre più aggressive epidemie. Lo sottolinea l’ultimo report del WWF: la distruzione della natura e il commercio legale e illegale di animali selvatici vivi e di loro parti rappresentano pratiche pericolose che possono dare il via a nuove zoonosi, aumentando il rischio di pandemie le quali possono causare, come abbiamo potuto constatare in questi giorni, gravi crisi sanitarie, economiche e sociali nei Paesi coinvolti.
È chiaro quindi che la difesa degli ecosistemi naturali è il primo importante obiettivo da perseguitare per evitare il salto di specie di nuovi virus e la diffusione di ulteriori pandemie. A ciò devono necessariamente seguire misure urgenti per la diminuzione dell’inquinamento atmosferico, causa di milioni di morti e amplificatore della diffusione delle epidemie.
Tutto ciò però servirà a ben poco finché l’essere umano non capirà di essere parte integrante di quell’ecosistema che sta distruggendo. Se la natura muore, l’uomo muore. Se l’uomo non si adatta agli equilibri naturali, l’uomo muore. Se gli interessi economici continuano ad essere obiettivo principale delle società a discapito dell’ambiente, l’uomo muore. Le parole con cui il WWF conclude il report sulle epidemie e pandemie e la distruzione degli ecosistemi sono chiare «Gli ecosistemi in salute ed equilibrio sono l’alternativa a un immediato futuro fatto di ospedali sempre più grandi o disinfettanti sempre più tossici. Dipende tutto da noi e dalle nostre scelte».
Marco Pisano