Ad un anno dallo scoppio del conflitto tra Russia e Ucraina, una qualsivoglia soluzione (diplomatica o meno) sembrerebbe essere ancora lontana. Tra offensive e controffensive, ci sono molteplici elementi che indicano come l’elemento emozionale occupi un ruolo preminente tra gli umori della guerra, i quali sono entrati a pieno titolo tra le motivazioni che spingono gli ucraini e i russi a combattere. Per l’Ucraina non è ancora l’ora della pace; d’altronde, se Kiev si gioca una grossa fetta di territorio e la sua indipendenza, a Mosca Putin si gioca qualcosa di molto più personale (e importante): la sua permanenza al Cremlino.
In queste condizioni, diventa davvero difficile dipingere un quadro preciso delle prospettive future di un conflitto che non ha soltanto scompaginato la “pace europea” e la stessa vita dei cittadini, ma ha anche cambiato il modo di fare e di comunicare la guerra. In questo preciso momento, si vocifera che la Russia stia preparando una nuova offensiva mentre gli ucraini sono in attesa dell’ennesima spedizione di armi occidentali, dei carri armati Leopard II tedeschi e degli M1 Abrams americani. Le agenzie, inoltre, riportano le esplicite richieste del Presidente ucraino Zelenskyy relative alla fornitura di aerei da combattimento. Un segnale, questo, che potrebbe essere un importante indicatore dello stato delle forze armate di Kiev e della necessità del controllo dei cieli, su cui, fino a questo momento, è stato detto pochissimo.
La situazione in campo
La notizia più rilevante degli ultimi mesi di combattimento è sicuramente la conquista russa della piccola cittadina di Soledar, praticamente rasa al suolo dall’artiglieria russa. La sua caduta rappresenta più una vittoria politica e propagandistica che strategica. Si tratta del primo vero successo russo in sei mesi, da dare in pasto all’opinione pubblica interna per continuare a giustificare la bontà dell’operazione speciale di Putin.
Molto più interessante, invece, è la situazione che si è creata all’interno del fronte russo dopo la vittoria. Il fatto che al successo abbia contribuito in maniera determinante il gruppo Wagner dell’imprenditore (“il cuoco di Putin”), Evgeny Prigozhin ha aumentato enormemente il peso politico dei mercenari all’interno delle gerarchie dell’esercito russo. Le uscite pubbliche contro la gestione della guerra da parte del Cremlino e la sfida lanciata al ministero della Difesa di Mosca, il quale, con il cambio al vertice tra Surovikin e Gerasimov, ha voluto operare la scelta politica di riportare la guerra sotto l’egida del dicastero, sono dei segnali che indicano come il gruppo rivendichi un maggiore spazio mediatico e di manovra.
Dal punto di vista strettamente militare, è indubbio il fatto che la Russia abbia di molto aumentato le sue capacità offensive nel corso di questi mesi, portando il numero degli effettivi in campo dai circa 130mila dello scorso febbraio ai quasi 300mila attuali. Un balzo numerico notevole, frutto della mobilitazione parziale dello scorso ottobre che ha prodotto nuove reclute, o “nuova carne da cannone“, da scatenare contro un esercito, quello ucraino, che da alcuni mesi ha perso l’iniziativa. Un epilogo annunciato, soprattutto dopo lo sforzo prodotto per liberare le aree a sud e a est. Inoltre, anche il cambiamento dello schieramento in campo dell’esercito russo ha contribuito a lenire gli sforzi ucraini.
La ritrovata sicurezza russa si è tradotta nella minaccia di una nuova offensiva su larga scala – che per alcuni si sta già verificando, anche se non in “grande stile” – e nella esplicita richiesta, da parte di Zelenskyy, di aerei da combattimento. Quest’ultima richiesta, per la quale il Capo dello Stato ucraino si è recato direttamente a Londra e poi a Parigi, ha portato numerosi esperti a formulare delle analisi inerenti la reale condizione sul campo dell’esercito di Kiev e sulle sue necessità operative. Questi ritengono che il fatto che si stia prendendo in considerazione tale ipotesi, non è una bella notizia. Sin dalle prime settimane dell’aggressione russa, questa richiesta è stata considerata un tabù, ritenuta troppo onerosa per l’Occidente dal punto di vista politico: un aereo, infatti, non ha lo stesso valore simbolico di un carro armato, sia per il raggio d’azione che tali mezzi sono in grado di coprire sia per la percezione militare che trasmettono. Questo evidente “salto di qualità” inizia, però, ad apparire necessario perché con ogni probabilità la capacità di combattimento ucraina ha raggiunto la “quota di tangenza“, cioè un limite pratico oltre il quale all’esercito mancano le possibilità offensive – e forse anche difensive.
Fino a questo momento nessuno aveva mai ritenuto necessario ricorrere agli aerei e ai bombardieri, i quali hanno chiare finalità offensive, perché si credeva che con il fallimento dell’offensiva il contrattacco ucraino e lo stallo di queste settimane, che può anche essere interpretato come una “pausa operativa”, Mosca sarebbe giunta a più miti consigli. Ciò che Bruxelles e Washington non avevano considerato, però, è che Putin in questa guerra si sta giocando la sua permanenza al Cremlino. La fornitura di aerei da combattimento è facilmente fraintendibile, il loro trasferimento in volo da un territorio neutrale a un campo di battaglia può essere interpretato come un atto di guerra. Inoltre, i tempi della fornitura sarebbero lunghi, gli aerei richiederebbero piloti altamente addestrati e una logistica di terra molto complessa. Insomma, si tratta di una richiesta onerosa, su cui gli occidentali non sono ancora molto sicuri. D’altronde, un gesto del genere potrebbe aprire una “nuova fase” del conflitto, portando il coinvolgimento di Washington e di Bruxelles ad un “livello superiore”. Sicuramente il tempo gioca a favore di Mosca, perché indebolisce la determinazione dell’Occidente, ma è pur vero che nelle cancellerie europee non tutti sono pienamente convinti di voler fare un ulteriore passo in favore di Kiev.
Biden, con una mossa a sorpresa, si è recato a Kiev, rendendosi protagonista di uno dei più grandi gesti simbolici dell’ultimo anno e di uno smacco importante per Putin, il quale, dal canto suo, ha tenuto un atteso ma in parte deludente discorso alla nazione, in cui ha annunciato l’intenzione della Russia di uscire dal New Start, il trattato per la riduzione delle armi nucleari. Poco dopo il ministro Lavrov ha cercato di “mitigare” tali dichiarazioni, parlando di “sospensione”. Dal canto suo, il Presidente americano non si è recato a Kiev per un mero sostegno morale: sotto c’è una forte scelta di campo, netta, definitiva ma non incondizionata. Biden, con il suo viaggio, ha voluto inviare un messaggio non solo al suo avversario, per dimostrare quanto lui sia libero di muoversi a differenza del russo, ma anche all’Ucraina stessa e all’Occidente intero sulla forza del sostegno americano e della loro leadership, che non è ancora tramontata. Una serie di immagini forti, che acuiscono il confronto a distanza tra i due e rende prematura ogni prospettiva di pace e, soprattutto, pongono interrogativi su quali siano gli obiettivi americani sul conflitto.
Alcuni di questi sono stati ampiamente raggiunti, come la rinascita della NATO – che Macron considerava fino a poco tempo fa “cerebralmente morta” – o l’indebolimento, non ancora definitivio, della GeRussia ma anche la repentina diminuzione dell’influenza, soprattutto politica ed energetica, di Mosca sull’Europa. Si tratta di obiettivi pienamente raggiunti ma che, a quanto pare, Washington ritiene ancora insufficienti. Si dice che uno di questi sia “balcanizzare” il conflitto in corso, così da rendere completamente inoffensiva la Russia, la quale ormai ha perso quasi totalmente il suo ascendente sul continente europeo e forse anche sul resto dello spazio ex-sovietico delle repubbliche asiatiche.
La pace è ancora lontana
In uno scenario in cui a dominare sono l’incertezza e il “fattore emozionale“, è davvero complesso riuscire a tracciare delle coordinate attraverso cui interpretare lo scontro bellico e, di conseguenza, delineare un quadro preciso circa l’evoluzione e le prospettive future di quanto sta accadendo. Di solito, dicono gli esperti, si comincia a parlare di pace solamente in tre casi:
- quando uno dei contendenti si dimostra nettamente superiore all’altro – anche a sorpresa – e con tutte le conseguenze del caso;
- quando si prospetta una disfatta/vittoria totale di uno dei belligeranti;
- in caso di uno stallo, cioè quando entrambe le forze militari dei Paesi belligeranti non sono più in grado di compiere significativi progressi sul campo.
In questo preciso momento, nessuna delle tre condizioni è soddisfatta. L’Ucraina, nonostante abbia compiuto un grande e notevole sforzo per bloccare le numerose sortite russe, non ha la stessa forza propulsiva per avanzare una controffensiva e sta aspettando gli aiuti occidentali per riorganizzarsi e per resistere alla nuova offensiva russa. Non è improbabile, però, che in futuro gli ucraini possano riconquistare le forze e avviare una nuova avanzata. Parimenti, nemmeno i russi possiedono la capacità operativa di operare su vasta scala, almeno per il momento, e le condizioni logistiche, seppur migliorate, restano insufficienti per scalfire efficacemente le difese ucraine, se non al costo di pesanti perdite che, nel caso russo, possono essere sì rimpiazzate ma al gravoso costo della perdita di equipaggiamento e di uomini addestrati. Non si profila nemmeno uno stallo, dato che al Cremlino sussiste la volontà di combattere fino alla fine, mentre a Kiev, ormai, prevale su tutti gli altri comprensibili aspetti l’elemento emozionale, foraggiato dal Presidente per tenere alto il morale degli ucraini.
La pace, dunque, resta ancora un tabù del conflitto in corso tra Russia e Ucraina. I due Presidenti per ora la escludono, così come gli analisti e i rappresentanti delle istituzioni internazionali, quali l’ONU e la NATO. E in effetti, per il momento non sussistono le condizioni per una pace efficace. Ogni conflitto si conclude con un negoziato. Ma la diplomazia vuole i suoi tempi e le sue condizioni. Inoltre, nessun Paese accetterebbe un compromesso a lui sfavorevole. Ucraina e Russia non si trovano ancora in questa fase del conflitto.
Putin avrà bisogno di qualcosa da dare in pasto alla propria opinione pubblica. Zelenskyy non potrà passare alla storia come il Presidente che ha perso quattro regioni del suo Paese. Parlare di diplomazia a tutti i costi potrebbe far incappare nell’errore di confondere un negoziato di convenienza come una soluzione praticabile. E tra qualche anno, come nel caso dei debolissimi accordi di Minsk, potrebbe accadere la stessa cosa. È la cosiddetta “guerra per pezzi”, di cui si parla nelle monografie di strategia militare.
L’unica certezza è che, nel caso specifico, la futura pace non dovrà essere trattata solo come una questione tra Kiev e Mosca; l’unica soluzione negoziale possibile deve essere simmetrica e va pensata come una questione globale, ben comprendendo i rischi derivanti da un’ulteriore escalation. L’azione diplomatica, per forza di cose, non è unilaterale e comporterà rinunce ambo i lati. Tutto ciò presuppone, però una consapevolezza che in questo momento è ancora assente nei campi di battaglie e soprattutto nei palazzi del potere dei belligeranti.
Donatello D’Andrea