“Se i macelli avessero le pareti di vetro
saremmo tutti vegetariani”.
Lev Tolstoj
Dell’affermazione citata in esergo sono convinti sostenitori gli appartenenti al movimento dell’antispecismo morale che ne hanno fatto vessillo di tante campagne di sensibilizzazione. Ciò accade perché essi sono persuasi della tesi secondo la quale il consumo e la domanda costituiscono il motore del cambiamento sociale. Cerchiamo di comprendere perché le evidenze ci dimostrano il contrario.
Dallo sfruttamento diretto allo sfruttamento sistemico capitalistico
Per sfruttamento si intende un’attività attraverso la quale si trae un profitto ingiusto. Tale attività si fonda su un comportamento che incide in modo significativo sulla volontà dell’altro o che fa leva sulla diminuita capacità dello sfruttato di autodeterminarsi. Storicizzando questo concetto generale in una prospettiva marxista, prendiamo in considerazione la differenza ed il passaggio dalle società pre-capitalistiche a quella capitalistica.
Anzitutto, nella società pre-capitalistica gli uomini e le donne hanno bisogno di merci che vengono prodotte e poi scambiate tramite il denaro (M-D-M, merce-denaro-merce), mentre nella società capitalistica il processo di produzione parte dal denaro del capitalista che lo investe comprando merci che gli consentono di incrementare il denaro inizialmente investito (D-M-D, denaro-merce-denaro). L’obiettivo dell’intero processo di produzione diviene il denaro, non più le merci. In secondo luogo, nella società pre-capitalistica i servi della gleba venivano considerati come parte della proprietà fondiaria del signore feudale mentre il bracciante, nella società borghese, è riconosciuto come soggetto giuridico “libero ed uguale”.
Il passaggio da una condizione ad un’altra, consente di trarre alcuni elementi di riflessione: il transito dalla condizione di servo della gleba a quella di bracciante corrisponde a quello dal dominio personale-diretto a quello sistemico dove si realizza l’oggettivizzazione dello sfruttamento che viene a perdere così la dimensione personale. Peculiarità dello sfruttamento sistemico capitalistico è quella di produrre, in chi lo subisce, ma anche in chi lo esercita, una alienazione dalla dimensione di soggettivazione che porta alla spersonalizzazione delle relazioni.
Possiamo mettere a paragone, nel precapitalismo, la condizione di sfruttamento degli animali non umani con quello dei servi della gleba: le relazioni, che sono di dominio e sfruttamento diretto, mantengono ancora una dimensione “affettiva” perché gli sfruttati vengono percepiti attraverso una dimensione emotiva. Ai servi della gleba, agli animali, come alla propria terra, ci si tiene. Ciò che avviene, invece, con lo sfruttamento sistemico, come accade negli allevamenti intensivi, è l’oggettivizzazione dello sfruttato che abolisce ogni relazione affettiva con la vittima. Inoltre il processo di produzione, standardizzato e parcellizzato nelle diverse fasi della lavorazione, consente l’occultamento dell’interezza dell’animale tanto da renderlo invisibile non solo allo sguardo ma alla stessa percezione emozionale dei lavoratori.
Questo processo non è reversibile con la sola esposizione della vittima (Se i macelli avessero i muri di vetro…), perché lo sfruttamento sistemico capitalistico ha creato una frattura metabolica tra noi e la natura, tra noi e gli altri animali alienandoci da noi stessi; ha cioè modificato la nostra capacità psicofisica di percezione e di relazione con l’altro animale non umano ed umano. La dimensione fordista (standardizzazione-efficienza-ottimizzazione-profitto) che, attraverso la scomposizione dei processi, impera in tutte le nostre attività al di là della mera dimensione lavorativa, ha “smontato” la nostra attitudine di relazione con l’altro da noi, rendendoci incapaci di provare empatia. Oggi il fordismo affiancato dal toyotismo, fa sì che le nostre relazioni siano sempre last minute ed in risposta ad un’offerta just in time. In altri termini, si prende ciò che è utile, vantaggioso e senza spreco di tempo né di investimento relazionale per passare velocemente al soddisfacimento di altri desideri, che rispondono a bisogni indotti dal mercato, quest’ultimo fattosi sempre più esasperato nella diversificazione dei prodotti proposti. Il mercato capitalista è impersonale, non conosce etica ma profitto. Al tempo stesso, non è una risposta ai bisogni ma è generatore di bisogni. La auto-rivalutazione del capitale necessita di una sua costante circolazione così anche le merci debbono costantemente ed in modo esponenziale circolare.
La convinzione che basti la volontà, che basti essere vegani, per cambiare la percezione che abbiamo dell’altro animale non umano, è una convinzione fallace, perché si basa sulla concezione di un individuo avulso dal contesto socio-economico in cui si trova a vivere, si basa sulla convinzione che la rivoluzione culturale possa avvenire prima della rivoluzione strutturale del sistema sociale.
A tal proposito ricordiamo che la Rivoluzione di Ottobre ha rappresentato per la condizione della donna un balzo in avanti senza precedenti e che tali conquiste sono poi naufragate non per problemi culturali ma per cause di natura economica, per la redistribuzione delle risorse ecc. Di fronte alla povertà si tornò alla concezione della donna custode del focolare che si occupava della preparazione del cibo, perché le mense popolari non erano sostenibili come costo, ed a ciò venne affiancata la narrazione pubblica di quanto fosse migliore e più buono il cibo cucinato in casa.
È solo uno dei tanti esempi in cui appare facilmente intuibile come le forze economiche precedano quelle culturali e come il potere di chi detiene tali forze, principalmente attraverso la proprietà dei mezzi di produzione e distribuzione, determinino la cultura che funge poi da connettivo nello spingere e sostenere i modelli di comportamento. Il lifestyle tanto decantato nel veganesimo che lo vorrebbe forza propulsiva del cambiamento è il prodotto e non la causa del cambiamento.
Abbiamo sottolineato l’influenza ed il cambiamento che il capitalismo produce nella percezione dell’altro animale non umano ed umano; percepire non è un atto neutro né oggettivo né universale. La percezione è il modo in cui il cervello elabora e comunica ciò che proviene dall’esperienza sensoriale al resto del corpo; non possiamo considerare, quindi, l’atto del percepire in modo astorico, ma come un prodotto storico innestato su un patrimonio biologico, predisposto alla recezione ma modulato e costruito su quanto si apprende nella socialializzazione primaria e secondaria.
Habitus mentale causa o prodotto della struttura sociale
Parlando dei diversi capitali a disposizione degli individui che strutturano le società complesse (capitale economico, sociale culturale e simbolico), il sociologo Pierre Bourdieu si sofferma sulla nozione di habitus. Piccone Stella e Salmieri ne sintetizzano così il concetto:
«E la risposta è che nella pratica noi mettiamo in moto un habitus, un insieme di strategie approssimative e spesso grossolane, ma sedimentate in profondità, con le quali affrontiamo le situazioni più diverse: lo abbiamo incorporato destreggiandoci nel mondo attraverso azioni e reazioni, accordi e compromessi, invenzioni e adattamenti noi come i cabili. Ci distingue soltanto la presenza, nella nostra società moderna, dell’istituzione scolastica, che aggiunge un habitus secondario a quello primario, appreso nella socializzazione dell’infanzia. L’habitus è un modo collaudato di farci strada nello spazio sociale in cui siamo inseriti, corrisponde alle nostre disposizioni più durevoli»(S. Piccone Stella – L. Salmieri, Il gioco della cultura. Attori, processi, prospettive, Carocci, Roma 2012, p. 148).
Leggiamo cosa scrivono riguardo ai diversi capitali a disposizione dell’individuo:
«Il capitale culturale rappresenta una delle tre specie di capitale che Bourdieu ha individuato, insieme al capitale economico e a quello sociale, ai quali va aggiunto il capitale simbolico…Un tempo, nei secoli passati, erano la nascita e la fortuna a definire il campo del potere, oggi sono il capitale economico e il capitale scolastico i veri strumenti e nello stesso tempo la posta in gioco nella lotta per il potere. Il loro possesso e la loro distribuzione definiscono la posizione che gli attori occupano nei rapporti di forza. Non a caso chi dispone del capitale economico può appropriarsi con maggiore facilità del capitale culturale e con esso costruire la piattaforma più solida del potere sociale» (ibid., pp. 150 e 153).
Secondo Bourdieu l’habitus non costituisce un destino predeterminato, ma egli non abbandona mai la prospettiva secondo cui è la classe dominante di provenienza quella che struttura le scelte, anzi le possibilità stesse di scelta dell’individuo.
Quando ci riferiamo a scelte che dovrebbero cambiare il nostro stile di vita, ci riferiamo alla cultura, che come marxisti leghiamo alla struttura economica. Ciò non vuol dire, né mai Marx lo ha affermato, che questa non sia importante nelle scelte che può compiere un individuo, anzi. Per comprendere il posto che occupa la cultura nello sviluppo della società e la sua capacità di determinare il cambiamento sociale, va compreso il rapporto tra struttura e sovrastruttura alla luce del materialismo storico. In questa prospettiva sono le forze di natura materiale socio-economiche (non quelle spirituali o astratte) che muovono la storia.
In ogni società è possibile rivenire le forze di produzione ed i rapporti di produzione. Le forze produttive sono rappresentate dagli uomini che producono, dal modo in cui producono e dai mezzi di cui si servono per produrre. Mentre i rapporti di produzione sono rappresentati dalle relazioni tra gli uomini nei processi di produzione e consistono nel possesso o meno dei mezzi di produzione. Per Marx la cultura riveste un ruolo importante anche all’interno del processo rivoluzionario, nella presa di coscienza della classe operaia della propria condizione – la coscienza di sé – per realizzare il processo di autoriflessività e la consapevolezza della propria condizione. Ma la cultura rimane comunque una sovrastruttura determinata dalla struttura economica della società.
Nel capitalismo siamo tutti carnisti
La convinzione di potersi liberare, con la sola scelta del veganesimo, dagli habitus mentali che il capitalismo ci impone è illusione. Il carnismo può essere considerato come la propensione ad un uso abusante nel nostro rapporto con l’altro da noi, ogni altro, compresa la Natura. Questa propensione è la struttura, lo scheletro, che sostiene il capitalismo. Questa propensione pervasiva, come lo è lo stesso capitalismo avanzato – il neoliberismo – non consente, all’interno del sistema stesso, di liberarsi totalmente da tale tendenza.
Il neoliberismo, con la sua espansione e il modo in cui si intreccia ai rapporti economici e sociali, non consente una via di uscita reale da questi condizionamenti. Un esempio estremamente esplicativo:
«La soia, parimenti a ogni altra monocoltura, diventa il paesaggio che rispecchia un mondo capitalista. Quello che sembra una distesa ordinata, un prato inglese, si rivela più simile ad un vecchio tappeto impregnato di chimica che richiede una enorme quantità di energia, fertilizzanti, pesticidi e carburanti per rimanere intatto per mantenere l’idea di progresso, per nascondere le enormi crepe di fragilità del sistema stesso…La tanto decantata efficienza del confinamento, l’idea di essere riusciti a concentrare tanta produttività in così poco spazio, crolla di fronte alla vastità dei campi necessari e all’esaurimento ambientale che richiedono. Ecco, dunque, il conto dei processi neoliberali incontrollati per nutrire materia viva che a sua volta nutrirà noi… Vi è poi un ulteriore problema, di ordine morale uguale se non superiore. Questi fiumi tondeggianti di cereali e semi si ostinano a non comportarsi come il gatto di Schrödinger. Ossia, a non coesistere all’interno delle mangiatoie degli stabilimenti animali, e allo stesso tempo sotto forma di farine, bevande, pasta, tofu, salse e via dicendo sulla tavola umana». (F. Grazioli, Capitalismo Carnivoro. Allevamenti intensivi, carni sintetiche e il futuro del mondo, Il Saggiatore, Milano 2022, pp. 121-122)
Questo è il Neoliberismo, questo ci rende tutti carnisti. Il veganesimo non può, nella prospettiva del consumo, essere una risposta, produrre un cambiamento strutturale: esso rimane all’interno del sistema, perfettamente funzionale, con la sua pretesa morale dentro la impersonale indifferenza del capitalismo. È necessario porci altre domande e trovare altre risposte per pensare di intravedere una via di uscita.
Per noi antispecisti politici la risposta è la costruzione di una società liberata eco-socialista e la detenzione dei mezzi di produzione da parte delle classi subalterne: solo allora potremmo porci domande su come e quando in un’ipotetica società liberata debba realizzarsi la rivoluzione culturale; perché è chiaro che una società socialista non potrà essere al suo nascere una società anche già antispecista ma avrà le caratteristiche, le potenzialità, ancora ad oggi sconosciute, per poterlo diventare. Da una intervista a Dario Manni: “Come tutti gli schiavi appena liberati, porteremmo a lungo i segni delle nostre catene, forse per sempre. Se sarebbe così oppure no dipenderebbe anche da noi antispecisti, che nei consigli e nella società dei lavoratori avremmo finalmente l’opportunità di farci ascoltare; e troveremmo finalmente terreno fertile per la nostra semina, che oggi invece va in gran parte sprecata”.
Non sappiamo come sarà la società liberata ma possiamo e dobbiamo fare tutto ciò che è possibile affinché di realizzi.
Annamaria Ottaviani per GAP – Gruppo Antispecismo Politico