La working class, nella formazione della sua soggettività, è sempre più scissa tra essere sociale e coscienza sociale, nell’interiorizzazione del proprio ruolo nel ciclo produttivo, riproduttivo e nella vita sociale. Conformatasi del tutto alla necessità meccanica d’un ordine naturale imposto e teologizzato: fondamentale prerogativa di un assetto storico-sociale capitalistico sempre più alieno alla volontà e al controllo umano in virtù del suo funzionamento secondo regolarità meccaniche ed estrattiviste. Si consolida così il processo d’alienazione sia del prodotto del lavoro dal suo artefice, sia della singola soggettività dalla collettività e dal mondo stesso. Ma soprattutto in un contesto globale di progressiva automazione dei processi lavorativi si manifestano minacciosamente due macro-tendenze: una disoccupazione tecnologica senza precedenti e il netto peggioramento delle condizioni di vita della working class causate da una scriteriata competizione tra essere umano e macchina.
L’inarrestabile velocità del mutamento tecnologico e la necessità sistemica di generare sempre più surplus economico rendono interi segmenti della popolazione un elemento sociale obsoleto sia per il calo della domanda di forza-lavoro sia per l’enorme difficoltà delle soggettività appartenenti agli strati sociali sfruttati e oppressi di specializzarsi e d’acquisire le necessarie competenze lavorative. Ne consegue l’espulsione di un’ampia porzione di popolazione dal processo lavorativo: ciò sottopone la classe lavoratrice a costanti tensioni in un contesto in cui la disoccupazione di massa e la minaccia alla mera riproduzione materiale della vita è permanente, con il nefasto effetto della formazione di un mondo di estrema incertezza.
La crisi profonda del lavoro colpisce qualsiasi società fondata sull’istituzione del lavoro salariato. Sotto il dominio del capitale i posti di lavoro hanno una centralità tale da essere decisivi per lo svolgimento della vita sociale, per l’identità stessa del soggetto lavoratore, oltre a essere l’unica fonte di sostentamento per gran parte della popolazione globale. Con la possibilità di un’automazione del lavoro su larga scala e conforme alle esigenze del processo capitalistico, il futuro prossimo presenterà tendenze estremamente disastrose.
Tra le più evidenti vi è l’acuta precarietà della working class, soprattutto nelle economie già sviluppate a causa della crescita del surplus di forza-lavoro globale anche perché molti lavori verranno svolti da macchinari, grazie all’automazione e allo sviluppo dell’IA, andando così a rimpiazzare del tutto la working class in determinati settori. Secondo il Future of Jobs Report 2023 quasi un quarto dei posti di lavoro globali è destinato a mutare nei prossimi anni, mentre nell’ultimo lustro v’è stata una perdita pari a 14 milioni di posti di lavoro in meno e la stima per il 2025 è di un deficit di 85 milioni all’incirca.
Inoltre, il criterio di utilità capitalistico renderà ancor più oneroso e dis-utile investire nella creazione di nuovi posti di lavoro che vadano a rimpiazzare quelli perduti; così in nome della legge della concorrenza tra le corporations, per la prima volta nella storia il lavoro che viene soppresso con la razionalizzazione dell’apparato produttivo è maggiore di quello che può essere riassorbito in virtù dell’espansione dei mercati. E nel disperato tentativo di educare e formare una nuova, seppur ridimensionata, working class specializzata, l’istruzione pubblica e privata saranno strumentali alla semplice formazione lavorativa accelerata degli individui. Mentre per la restante fetta di popolazione marginalizzata vi sono già politiche di workfare e misure coercitive di varia natura, pur di garantire controllo sociale e manodopera a basso costo alle aziende poco sviluppate.
In conformità a siffatti rapporti di forza asimmetrici vengono progettati strumenti tecnologici che agevolino esclusivamente la produzione per la valorizzazione. Dunque, il processo lavorativo si omologa a questa finalità disumanizzante e, in rapporto al feticcio della crescita, ogni invenzione diviene un mero affare economico e i risultati di tale business vengono governati attraverso il paradigma dominante dell’economia orientato al profitto: miglioramento tecnico degli strumenti, non degli scopi che mediante gli strumenti medesimi sono perseguibili, al di là dell’accumulazione capitalistica, come la liberazione dal giogo del lavoro coercitivo.
L’automazione e la digitalizzazione intensificano la capacità del capitale di mettere al lavoro l’intera esistenza, in tal modo si estende la produzione e la prescrittività tecnica a tutto l’esistente, rendendo produttive persino le stesse attività classicamente considerate di consumo. Spostando la centralità della produzione dalle merci materiali alla produzione di servizi, e rendendo immediatamente produttiva tutta la sfera non monetizzabile dell’interconnessione relazionale e della riproduzione sociale, tradizionalmente invisibilizzata. S’instaura, pertanto, una società in cui il lavoro si trasforma radicalmente e si diffonde dovunque: l’individuo capitalista è un soggetto di prestazione sia che guadagni denaro, sia che lo spenda.
Secondo Marx è proprio con l’automazione, in seno al processo di perpetua valorizzazione del capitale, che l’organizzazione del processo produttivo consegue il suo più alto grado di sviluppo; avviene la sistematizzazione e integrazione dell’agire umano in rapporto alle macchine secondo modelli computazionali replicabili ad libitum, tendenzialmente indipendenti dalle individualità degli agenti empirici. L’oggettività capitalistica del meccanismo produttivo si fonda sul principio tecnico delle macchine: rapidità e efficienza tecnicamente determinate, connessione meccanico-digitale delle diverse fasi del processo lavorativo e non solo, continuità ininterrotta del flusso produttivo s’impongono in quanto necessità tecnico-scientifiche al sistema produttivo-riproduttivo e, quindi, all’esistenza alienata del soggetto, mentre corrispondono inequivocabilmente alla volontà del capitalista di vampirizzare quanta più forza-lavoro possibile al fine di immagazzinare maggiori plusvalenze.
Scrive Toni Negri: «Il macchinismo, la tecnologia […] lungi dall’essere solo “neutri” prodotti della “scienza”, sono al contrario “forze produttive” che, invadendo la realtà, assumono in sé non più solo i lavoratori ma le popolazioni. Il macchinismo imbraga la vita». Il processo di automazione, quindi, sorgendo in un dato contesto storico-sociale, è pensato per operare secondo la forma organizzativa della legge del valore capitalistica: s’inscrive così in una precisa forma di dominio.
Automazione, sfruttamento capitalistico e working class
Il processo d’automazione non libera la working class dal lavoro, bensì svuota il lavoro di quest’ultima del proprio contenuto rendendolo puramente astratto, indifferente alla sua particolarità concreta determinata esclusivamente dal capitale: oggetto passivo della manipolazione impersonale capitalistica nella spasmodica ricerca del plusvalore. Scrive Marx: «È un tratto comune a ogni produzione capitalistica, in quanto non solo processo lavorativo ma, nello stesso tempo, processo di valorizzazione del capitale, che non l’operaio utilizzi le condizioni del lavoro, ma inversamente le condizioni del lavoro utilizzino l’operaio; è però soltanto col macchinismo che questo capovolgimento assume una realtà tecnicamente tangibile. Con la sua trasformazione in automa, durante lo stesso processo lavorativo il mezzo di lavoro si erge di fronte all’operaio come capitale, come lavoro morto che domina e succhia la forza-lavoro viva».
L’inversione del rapporto tra il soggetto lavoratore e il lavoro rende la working class mera sorvegliante e appendice dei mezzi di produzione, i quali a loro volta fungono da mezzi d’assorbimento della forza-lavoro in atto. Si ha così una struttura produttiva rivoluzionata incessantemente dall’interno progettata per comandare dispoticamente il lavoro vivo all’interno del processo di valorizzazione capitalistico. La spoliazione del lavoro da ogni determinazione qualitativa e la sua riduzione a mera quantità si determina come il portato peculiare del capitalismo: non soltanto perché il lavoro astratto-alienato, morto nella merce, è l’oggettivazione del lavoro vivo del soggetto salariato, ma anche perché gli stessi caratteri concreti dell’attività sono sempre più dettati dal capitale, in relazione necessariamente alla sua configurazione tecnica e organizzativa finalizzata alla massimizzazione dei profitti.
Astrazione e sfruttamento del lavoro divengono fenomeni sostanzialmente coestensivi. Allorché l’utilizzo delle tecnologie è generalizzato in tutti i rami della produzione e del consumo, si dà una congiuntura socio-economica in cui il capitale è ormai giunto a determinare capillarmente la stessa forma tecnica e organizzativa della produzione e del consumo, e ciclicamente a decretare le possibilità di controllo della working class sui tempi e sulla qualità del lavoro e della loro medesima esistenza. Quindi mediante l’automazione, con il suo sistema di leggi algoritmiche, il tempo di lavoro viene trasformato da tempo di lavoro necessario in tempo di pluslavoro.
Il capitalismo è così dispotismo esercitato in nome della razionalità produttiva e computazionale funzionale all’inesausta auto-valorizzazione del capitale, alla parcellizzazione, all’omogeneizzazione e allo sfruttamento illimitato delle esauribili risorse umane e planetarie. Una forma di razionalità né neutrale né formalmente astratta in quanto determinata da precisi attori sociali e, allo stesso tempo, impersonale in quanto prescinde dalle singole personificazioni empiriche agenti nel processo complessivo.
A tal riguardo, riprendendo Marx, scrive David Harvey: «La fantasia del capitale di un controllo totale sul lavoro e i lavoratori ha le sue radici in circostanze materiali, in particolare nella dinamica della lotta di classe in tutte le sue manifestazioni sia dall’interno che all’esterno del processo di produzione. Il ruolo della disoccupazione indotta tecnologicamente nel disciplinare i salari, la ricerca di beni sempre più a buon mercato per la sussistenza della forza-lavoro per rendere più accettabili salari più bassi, l’attacco a ogni suggerimento di un salario sociale minimo perché favorirebbe la pigrizia da parte dei lavoratori e simili, costituiscono un ambito della lotta di classe in cui gli interventi e le mediazioni della tecnologia diventano essenziali».
Il dominio del mondo naturale e del mondo umano è la conditio sine qua non del capitale, ovvero di un’oggettività naturalizzata. Con la finanziarizzazione e la digitalizzazione del capitale non v’è futuro alcuno, perché il futuro è sempre nell’immediatezza, ovverosia nella valorizzazione istantanea del valore virtuale, nella sua deterritorializzazione accelerata, nella spietata speculazione, nella precarizzazione e nella devastazione degli ecosistemi, delle comunità umane e delle realtà non-umane. All’accelerata auto-espansione del capitale corrisponde, in realtà, un depauperamento costante dell’intera società: il capitale cattura energie e risorse trasformandole in astrazione monetaria – cioè in nulla.
Il capitale, come modo di controllo del ricambio sociale, non tollera l’intrusione d’alcun principio di regolazione socio-economico inteso a porre vincoli alla sua inarrestabile dinamica espansiva. È un’assoluta necessità, al fine di dis-locare i problemi e le contraddizioni emergenti, così le fondamenta causali autopropulsive permangono indiscusse anche al costo di originare una produzione distruttiva. Indubbiamente l’onnipervasiva «seconda era delle macchine» è la conseguenza di ciò, ossia della finanziarizzazione e della digitalizzazione della riproduzione della vita quotidiana: big data, software agents, trading algoritmico, machine learning, deep learning, robotizzazione di ampi settori industriali e non dell’economia globale. Per quanto il capitale, però, sia un processo privo di soggetto – fondandosi sull’alienazione del controllo in rapporto ai produttori e riducendo il lavoro a mero fattore materiale di produzione, permane un fatto incontrovertibile e perturbante: il lavoro vivo, potenzialmente sovversivo, resta invariabilmente il soggetto reale della produzione e dell’automazione.
Difatti, con l’organizzazione odierna della produzione e del consumo s’esaspera l’atomizzazione sociale e v’è un esponenziale accentramento della ricchezza e del potere decisionale e politico, accentuando in tal modo sempre più l’abisso socio-economico tra classe capitalista e working class. La società è scissa in una piccola classe smisuratamente opulenta e in una grande classe di salariati e non salariate ridotte e ridotti alla schiavitù, all’imbarbarimento e alla miseria. Dunque, la lotta della working class si presenterebbe come la necessaria contrapposizione globale al piano tecnico-dispotico del capitale e rispetto alla razionalità tecno-economica il rapporto della prassi rivoluzionaria sarebbe quello di un controllo sociale e collettivo permanente – progetto di potere dei liberi produttori associati con il rovesciamento totale dell’ordine capitalistico – e farne un nuovo e inedito utilizzo: l’uso comunista delle macchine.
Finché un’umanità radicalmente sviluppata non si sia ancora liberata consapevolmente dalla coercizione e devastazione della barbarie capitalista, finché non abbia creato organicamente una società collettivizzata realmente fondata sull’autodeterminazione delle soggettività libere che si riappropriano della dimensione spazio-temporale; tra la working class attecchirà sempre la necessaria utopia di un «mondo altro» e durante la lotta echeggerà ancora un grido arcaico e fragoroso contro il dominio inumano e transitorio del capitale.
Riprendendo Nanni Balestrini: «Una nuova epoca attende l’umanità, liberata dal ricatto e dalla sofferenza del lavoro, che ruba e degrada il tempo della vita, dalla schiavitù del denaro, sempre più nelle mani di pochi, mentre esistono le possibilità reali per un benessere diffuso e generale. Questo ha significato e potrà significare ancora oggi e domani l’antico grido: Vogliamo tutto!».
Gianmario Sabini