COP28
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La 28esima edizione della Conferenza delle Parti si terrà a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, dal 30 novembre al 12 dicembre prossimi. Per fare un po’ di chiarezza in vista di questo evento internazionale che per circa due settimane porterà il clima al centro delle agende politiche mondiali, partiamo rispondendo a una domanda: cosa sono le COP?

Questa sigla, acronimo dell’inglese Conference of Parties, sta a indicare una conferenza che le Nazioni Unite organizzano con cadenza annuale dal 1995 per trovare una soluzione ai cambiamenti climatici. Certo, occorre riconoscere che il fatto che siano ormai 28 anni che si parla di climate change senza essere riusciti ad arginare la crisi climatica non depone propriamente a favore dei summit climatici. Eppure essi continuano a rappresentare strumenti importanti, fosse solo perché riescono a convogliare l’attenzione dei leader mondiali – almeno di quelli i cui Stati sono tra i firmatari della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC), cioè del trattato ambientale internazionale che ha istituito la COP – sulle questioni climatiche, garantendo loro una copertura mediatica che nella restante parte dell’anno tende invece completamente a mancare.

Accordo di Parigi tra presente e futuro   

Ma, al di là di questa funzione, che forse potremmo definire collaterale, se si continua a guardare con attenzione e speranza alle conferenze sul clima è perché nella storia che le ha viste protagoniste non sono mancati ragguardevoli successi. Senza andare troppo indietro nel tempo, il più noto è senza dubbio costituito dall’Accordo di Parigi, siglato nella capitale francese a conclusione della ventunesima edizione della Conferenza delle Parti. In quel 2015, anno guardato come un vero e proprio spartiacque nella lotta al climate change, gli Stati firmatari dell’accordo si dettero tre obiettivi principali:

  1. Contenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto dei 2°C e proseguire gli sforzi per limitare l’aumento a 1,5 rispetto ai livelli preindustriali;
  2. adattarsi ai cambiamenti climatici e costruire la resilienza;
  3. allineare i flussi finanziari con “un percorso verso basse emissioni di gas serra e uno sviluppo resiliente ai cambiamenti climatici”.

Non è un caso se a partire da quella edizione, le successive Conferenze delle Parti si sono concentrate su come dare attuazione a questi e agli altri obiettivi contenuti nell’Accordo di Parigi.

Un momento fondamentale, in tal senso, si svolgerà proprio durante il summit emiratino. La COP28, infatti, segna la conclusione del primo Bilancio Globale (Global Stocktake – GST), ovverosia di quel meccanismo attraverso cui valutare i progressi compiuti nell’ambito dell’Accordo di Parigi. Più nello specifico, a Dubai sarà presentata la sintesi finale dell’analisi svolta e sebbene sia chiaro fin da ora che non siamo sulla buona strada per raggiungere i desiderata dell’accordo, la speranza è che gli Stati possano elaborare una tabella di marcia per accelerare l’azione per il clima.

COP28, cosa aspettarsi

Proprio alla luce di tale speranza occorre interrogarsi sulla scelta di ospitare la Conferenza delle Parti a Dubai che, ricordiamolo, è il settimo produttore di petrolio al mondo e il quinto per riserve di gas. La sua economia, dunque, è fortemente dipendente dai combustibili fossili, la cui graduale eliminazione dovrebbe invece costituire il traguardo più importante da raggiungere a termine della COP stessa.

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Da questo punto di vista, però, la storia dei summit climatici non lascia ben sperare: è stato solo in occasione della COP26 tenutasi a Glasgow che per la prima volta è stato incluso, all’interno del testo finale di un incontro sul clima, un riferimento ai combustibili fossili. Nel Patto per il clima di Glasgow, infatti, si legge della necessità di accelerare “gli sforzi verso la graduale riduzione dell’energia da carbone non smaltita e l’eliminazione graduale degli inefficienti sussidi ai combustibili fossili”. Fino a quel momento, le fonti fossili non erano mai state menzionate. Nemmeno lo storico Accordo di Parigi, di cui si diceva poc’anzi, si concentrava sulle cause del climate change, dando spazio solo al problema e alle sue possibili soluzioni.

In considerazione di questi trascorsi – come pure del fatto che il presidente della prossima COP, Sultan al-Jaber, è amministratore delegato della più grande azienda petrolifera degli Emirati Arabi – appare difficile anche solo immaginare la sigla di un patto sul phase-out delle fonti fossili.

Diversificazione o transizione?

Più probabile, invece, è che questa COP venga ricordata come la COP delle rinnovabili. Per quanto contraddittorio possa apparire, infatti, gli Emirati Arabi stanno investendo enormi quantità di denaro in eolico e solare, facendosi promotori ed esportatori dell’idea della diversificazione delle fonti energetiche. La posizione assunta dai padroni di casa, insomma, è quella di aggiungere le rinnovabili al sistema energetico, in modo da consentire ai combustibili fossili di abbandonare autonomamente la scena quando avranno smesso di generare profitti.

Diametralmente opposta, invece, la posizione di quegli Stati che, minacciati dalle manifestazioni più estreme della crisi climatica, chiedono di interrompere immediatamente la dipendenza dal fossile per aumentare invece l’impiego delle rinnovabili. E come ci ricorda Ferdinando Cotugno, nell’ultimo numero di Areale: Per un saudita, la prima soluzione è ragionevole realismo. Per un maldiviano, è una condanna a morte, oblio e sparizione della sua terra.

Indipendentemente da quella che è la narrazione emiratina, che sembra confondere la transizione energetica con la diversificazione, il raggiungimento di un accordo finale della COP28 su un obiettivo per le energie rinnovabili sembra reso ancor più sicuro dall’importante passo avanti fatto grazie alla decisione, arrivata nel settembre di quest’anno in occasione del Vertice G20, di perseguire e incoraggiare gli sforzi per triplicare la capacità di energia rinnovabile a livello globale.

Quale sorte per il loss and damage

Un altro terreno di confronto/scontro sarà quello relativo alla finanza climatica. Il Comitato di transazione istituito ad hoc durante la COP27 per occuparsi dei dettagli più tecnici relativi al fondo loss and damage ha infatti raggiunto una sorta di preaccordo che sta già facendo discutere. La proposta controversa, nello specifico, è quella che vuole che il nuovo strumento finanziario nasca in seno alla Banca Mondiale, per un periodo di prova di 4 anni. Ancora una volta, i più preoccupati da questo stato di cose sono i Paesi del Sud del mondo i quali ragionevolmente temono un’ingerenza, sotto questo profilo di governance, dell’Nord globale e – più precisamente – degli Stati Uniti.

La Banca Mondiale, infatti, non solo ha la sua sede a Washington, ma è sempre stata presieduta da un cittadino statunitense. D’altra parte, pur essendo un’agenzia specializzata delle Nazioni Unite, vede proprio gli USA detenere un’influenza non indifferente nell’elezione della persona che ne assumerà la presidenza, una circostanza che sembra stonare rispetto alle richieste di terzietà e indipendenza avanzate da chi dovrebbe beneficiare dei finanziamenti messi a disposizione dal fondo.

E proprio questo costituisce l’ennesimo punto di domanda a cui si proverà a dare risposta durante la prossima Conferenza sul clima che, sebbene resti aperta nelle possibili conclusioni, sembra non lasciare troppo spazio a previsioni ottimistiche, peggiorate – se possibile – da un panorama internazionale attualmente dominato da molteplici scenari di conflitto.

Virgilia De Cicco

Virgilia De Cicco
Ecofemminista. Autocritica, tanto. Autoironica, di più. Mi piace leggere, ma non ho un genere preferito. Spazio dall'etichetta dello Svelto a Murakami, passando per S.J. Gould. Mi sto appassionando all'ecologia politica e, a quanto pare, alla scrittura. Non ho un buon senso dell'orientamento, ma mi piace pensare che "se impari la strada a memoria di certo non trovi granché. Se invece smarrisci la rotta il mondo è lì tutto per te".

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