Manuela Manera, libera ricercatrice in gender studies e linguista descrittiva, nel suo libro “La lingua che cambia – Rappresentare le identità di genere, creare gli immaginari, aprire lo spazio linguistico” fornisce, com’è proprio della collana bookblock edita da Eris, un vero e proprio strumento di autodifesa culturale per un uso consapevole della lingua italiana. Si tratta di un invito a riflettere e a interrogarsi sulla lingua, sulle prospettive e i significati veicolati dagli elementi scelti di uno specifico repertorio linguistico adoperato.
Ogni singola parola, infatti, genera echi che incidono nella realtà sociale; basti pensare a come la diversa percezioni di significati simili, connotati in maniera differente, riveli sin da subito quel legame significativo tra lingua e società. Una volta riconosciuto tale rapporto, ogni parola può cominciare ad essere vista per quello che è: un agglomerato di lettere e un involucro di significati sociali, oltre a quelli standardizzati dal vocabolario. Da qui, la carrellata di implicazioni e la necessità di riconoscere i meccanismi quasi automatici che regolano e limitano il comportamento linguistico. Riconoscere e disinnescare quegli automatismi che impediscono un uso consapevole della lingua, diventa fondamentale. Costruire una coscienza linguistica è un atto politico.
La riconfigurazione dello spazio linguistico si inserisce tra i punti fondamentali del dibattito contemporaneo contro quelle discriminazioni sistemiche, invisibili, ai danni delle categorie marginalizzate. L’ambiguità linguistica, la presunta universalità del maschile e la scarsa attenzione alle parole diventano strumenti nelle mani dei paladini dello status quo e supportano istanze e azioni di chi fa di tutto per proteggere lo stato attuale delle cose. A maggior ragione, se la realtà linguistica da prova di essere specchio e riflesso di una realtà sociale che tende a riservare al maschile (bianco, etero, cisgender, abile) la prerogativa di soggetto del discorso e silenziare le altre soggettività. Abbiamo approfondito il tema con l’autrice.
Visto che si occupa di linguaggio e genere da un bel po’, mi chiedevo: all’inizio della sua carriera, com’è stato percepito il suo interesse nei confronti dei “femminili singolari” citando il libro di Vera Gheno? Circa dieci anni fa, qual era la sensibilità dell’accademia circa questo tema, nonostante dagli anni ’80, la questione linguistica in un’ottica di genere sia stata già trattata in ambiente accademico?
M: «La questione in ambito accademico arriva alla fine degli anni ‘80 con il lavoro di Alma Sabatini. “Il sessismo nella lingua italiana” è la sua opera più nota, contiene le raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, che furono accolte però in un modo molto critico, anche nell’ambito accademico. Se teniamo conto che il MIUR si è dotato di linee guida relative a un linguaggio di genere nei documenti amministrativi nel 2018, ci rendiamo conto di quanta poca attenzione abbiano avuto le indicazioni di Alma Sabatini. Le resistenze ci sono ancora oggi anche nell’ambito del giornalismo e negli ambienti lavorativi. Dieci anni fa, quando ho cominciato il mio percorso, si parlava di linguaggio di genere, non di linguaggio inclusivo, e la battaglia era quella di diffondere e far accettare l’uso dei nomina agentis, quindi dei nomi femminili per le professioni e i titoli, riflettendo sul fatto che i maschili non hanno affatto un valore neutro neppure al plurale.
[…] Oggi c’è un po’ meno resistenza, ma non è ancora del tutto appianata. Nei miei incontri ci sono sempre considerazioni del tipo “è corretto dire avvocata?” oppure “ingegnera suona male”, “architetta non si può sentire”. Quindi, anche se smussate, resistenze ce ne sono moltissime, come testimoniano diverse indagini, tra cui il volume “Il sessismo nella lingua italiana, trent’anni dopo Alma Sabatini” edito da “Blonk” nel 2020. Il libro presenta un’indagine che a distanza di trent’anni fa il confronto tra la situazione attuale e quella di Alma Sabatini, rilevando che le cose sono un po’ cambiate, ma non così tanto com’era auspicabile e come, in realtà, anche i processi delle lingue storico-naturali dovrebbero portare. Stefania Cavagnoli in “Sessismo” edito da Mondadori nel 2021, infatti, nota come i cambiamenti a livello lessicale si assestino dopo una decina di anni».
Per quanto riguarda la comunità di parlanti dell’italiano, c’è una maggiore consapevolezza linguistica adesso? Nota che il comportamento linguistico è cambiato? E, se sì, che ruolo hanno avuto e hanno i social in questi cambiamenti?
M:«In questi anni sono stati erogati moltissimi corsi di formazione, sia all’interno di enti pubblici che di aziende private e, ancora oggi, c’è molto lavoro su quello che viene chiamato il “linguaggio inclusivo. Questa insistenza effettivamente dovrebbe portare una maggiore consapevolezza. Teniamo conto, però, che è una riflessione, quella sulla lingua, che si accompagna non soltanto alle questioni legate alle identità di genere, ma anche, in ottica intersezionale, al razzismo, all’abilismo, al classismo, ecc. Inoltre, tutta la riflessione sul politicamente corretto ha portato a riflessioni importanti. Spesso, però, quando si cita il politicamente corretto scatta subito una difensiva e una storpiatura di quello che è l’intento di riflessione sulla lingua.
Si parla addirittura di “dittatura del politicamente corretto” e i social in questo non hanno aiutato il dibattito, nel senso che hanno causato ad una forte polarizzazione. Quindi, più che una riflessione sulle questioni, hanno portato ad uno schieramento, che è una cosa da evitare nell’ambito linguistico perché è invece opportuno riflettere, scegliere liberamente e non suddividersi in squadre. È anche vero, però, che è grazie anche ai social che c’è stata un’accelerazione dell’innovazione linguistica, a livello generale e quindi anche alla diffusione di forme femminili e la diffusione di strategia linguistiche sperimentali. Diciamo che i social sono un acceleratore in positivo e in negativo. Hanno un po’ una doppia valenza, ma sicuramente sono uno strumento che aiuta a diffondere le innovazioni linguistiche».
Perché secondo lei molte persone sono reticenti a concepire il legame tra lingua – realtà, il rapporto biunivoco di influenza reciproca e il potere della lingua di agire nell’immaginario collettivo, nel riconfermare visioni e prospettive o sovvertirle?
M: «Questo è un po’ il punto fondamentale, quello che non si vuole mai affrontare, l’elefante nella stanza. Si dice sempre “sono solo parole” finché sono questioni che non ci riguardano in modo diretto, però se venissimo noi appellate con un insulto o una parola fuori luogo, in quel caso “le parole hanno un peso”. Diciamo che questa resistenza io la interpreto come una forma di protezione rispetto a sé e a quello che nel mio libro ho chiamato “comfort zone”. Io mi sono strutturata una serie di punti di riferimento e metterli in discussione mi crea un’insicurezza e quindi, come forma di protezione, accantono tutto e non voglio riconoscere il legame così forte e simbiotico tra la lingua e la realtà.
Si comincia a parlare di argomenti “benaltristi”, cioè si afferma che c’è ben altro di più importante a cui pensare e non ci si accorge che, quando ci occupiamo di queste cose molto più importanti, in realtà comunichiamo e come lo facciamo? Usando le parole e allora si ritorna ancora lì: quali parole si scelgono? È una questione anche di prospettive, di principi, di ragionamento e non tutte le persone hanno la volontà di mettere in discussione i propri punti fermi, soprattutto se questi punti fermi hanno a che fare con dei privilegi, con un potere o con una concezione di società in cui ci sono delle gerarchie e non tutte le soggettività valgono lo stesso. Per mantenere lo status quo, allora, ci si trincia dietro a questi argomenti, non riconoscendo che invece il rapporto tra lingua e realtà (e lo vediamo tutti i giorni) è strettissimo».
Quali possono essere le strategie per svelare quello che lei nel suo libro definisce come grande imbroglio dell’utilizzo del maschile con quelle le due caratteristiche aggiunte di “neutro – generico” e “universale – inclusivo” ?
M: «Si può ragionare tanto a livello teorico e a me piace molto farlo, però poi alla fine ci si perde sempre un po’. Quindi, la cosa ideale è tenersi buoni alcuni esempi da mostrare o su cui far ragionare le persone. Ad esempio, quando si dice “io parlo della carica in modo neutro, generico” oppure “è un titolo, io non sto parlando della persona nello specifico” possiamo far ragionare che questo non vale per tutte le professioni, ma solo per alcune: perché se ministra, ingegnera, architetta suonano male, commessa, maestra, contadina, operaia suonano bene? Il fatto che ci sia un’incoerenza nell’uso mostra come la regola presunta del maschile neutro sia solo frutto di una convezione sociale, non poggi su una regolarità linguistica.
[…] È la comunicazione stessa che ci mostra dei paradossi comunicativi che non accetteremmo mai, ma che invece accettiamo perché non vogliamo vedere, appunto, l’elefante nella stanza. Non vogliamo renderci conto che quello è un errore, prima di tutto, grammaticale e non porta nemmeno a una comunicazione efficace. È quello che io alla fine definisco come imbroglio perché rende molto più confusa la comunicazione e nasconde un sistema di valori che non ha niente a che vedere con la cultura della parità».
Per questa domanda mi riferirò all’interessantissimo passaggio del suo libro sulla deixis am phantasma. Cosa comporta per un soggetto muoversi nello spazio linguistico tramite un’identità fittizia che non corrisponde alla propria soggettività? Garantisce, sì, la possibilità e la libertà di esprimersi, ma a che costo?
M: «Dal mio punto di vista, il costo di perdere l’autenticità, il costo di rinunciare ad un pezzo di sé e il fatto di farsi valere sotto mentite spoglie. Una mossa che, però, è dettata proprio dal sessismo presente nella nostra società, quello per cui se ti presenti come “architetta” ti prendono in giro, se ti presenti come “ingegnera” ti viene riconosciuta meno autorevolezza, se ti presenti come “direttrice d’orchestra” sembra che vali meno di un direttore. Allora, finché ci nascondiamo dietro al maschile, abbiamo più probabilità di vederci riconosciuta una professionalità, un’autorevolezza che invece il femminile potrebbe mettere in dubbio o per la quale dobbiamo lottare di più. Io vedo nella scelta per sé di una nominazione al maschile un movimento di difesa e di rinuncia a esporsi, il che va benissimo perché non tutte le personehanno la possibilità di intraprendere battaglie o di fronteggiare continui attacchi o micro-aggressioni.
Più problematico è per me questa scelta di nascondersi sotto a un maschile da parte di quelle persone che hanno già raggiunto delle posizioni di potere e autorità e che, proprio per il fatto di essere in una posizione prestigiosa e quindi poter raggiungere un pubblico più ampio, potrebbero usare la loro posizione per disinnescare dei meccanismi sessisti. Ecco, quello lo trovo problematico. Lì invece che una messa in sicurezza, mi pare possa essere più una forma di egoismo perché nel momento in cui tu raggiungi un privilegio, non è una colpa, magari è pure un merito, però arrivata lì potresti usare il privilegio che hai per far strada e aprire brecce e modificare lo status quo, perché altrimenti diventi connivente con un sistema che continua a ribadire stereotipi, sessismi, discriminazioni».
E, per concludere, cosa ne pensa delle sperimentazioni linguistiche più popolari negli ultimi tempi? E, nello specifico, dello schwa e tutto il clamore mediatico che sta generando?
M: «Per quanto riguarda lo schwa, così come l’asterisco * oppure la -u e altre strategie, sono sperimentazioni che non si sono ancora assestate nella lingua standard. Lo schwa in particolare si sta diffondendo molto e lo ritroviamo in alcune opere, pubblicate anche da grandi case editrici. Mi viene in mente Mondadori, ma non è l’unica e anche da case editrici indipendenti tra cui Eris, Capovolte, Asterisco, che non a caso si chiama così. Sono delle scelte che, per quanto siano sperimentali e possano suonare strane, rispondono ad un’esigenza comunicativa per la quale non si è ancora trovata la soluzione definitiva. Penso che queste strategie nascano da una necessità e, in quanto tale, debbano in qualche modo essere accolte o, quantomeno, guardate e studiate […].
Anche qui c’è una chiusura sulla realtà italiana, che non fa vedere come queste tematiche siano presenti anche in altre lingue. Io da linguista osservo con molta curiosità, pensando che la lingua italiana sia una lingua in continua mutazione e che, in quanto lingua viva, proprio per poter sopravvivere, deve essere efficace, funzionale e rispondere a delle esigenze comunicative che, scorrendo la storia e modificandosi anche gli ambiti sociali e culturali, sono nuovi e per questo portano con sé innovazioni. Si vedrà solo tra un po’ di tempo, a seconda di come le persone che parlano usano la lingua, quali strategie eventualmente si assesteranno. Nel frattempo, quello che io esorto a fare è mettere da parte l’arroganza e interrogarsi sul proprio posizionamento e quindi sul rapporto che, in quanto soggettività, abbiamo con la lingua. E qui si ritorna a Bühler, chi ha sempre parlato da una certa posizione, origo, dovrebbe fare lo sforzo di capire che quella non è una posizione neutra e universale, ma è individuale, personale, legata ad una soggettività e ad una storia. Mentre, qui cito la traduttrice Martina del Romano, “il dimenticarsi di avere un corpo è un privilegio”. Bisognerebbe tenerlo presente».
Giuseppina Pirozzi