Culla per la vita
Fonte: Unsplash (@ Alex Pasarelu)

Alcune donne non vogliono essere madri, ma il concetto non è ancora considerato pacifico. Fabio Mosca, direttore della Neonatologia e della Terapia intensiva neonatale del Policlinico di Milano, sostiene di non aver rinvenuto nelle parole della madre biologica del piccolo Enea “i sintomi di una sindrome da baby blues o di una depressione post partum“, pertanto attribuisce la causa dell’abbandono del piccolo all’impossibilità di garantire lui un futuro sereno: «Una madre che abbandona il figlio per questo motivo vive una difficoltà che non abbiamo colto e che dovrebbe fare riflettere tutti. La sua è una lettera lucida che esprime un disagio e una consapevolezza, quella di non poter offrire il meglio al proprio bambino».

Mosca, ciò nonostante, ha deciso di rivolgere un appello alla donna: «La mia speranza, però, è ancora che la sua mamma ci ripensi. Io vorrei che le arrivasse questo mio messaggio. Vorrei che questa mamma mi ascoltasse, può ancora riprendersi il suo bambino, voglio che sappia che noi possiamo aiutarla a farglielo crescere e che nulla è perduto. Io desidero parlare a questa mamma e dire che siamo pronti a starle accanto, di mettersi in contatto con me e con l’ospedale». Il suo intento era invitare la donna – “con forza, affetto e convinzione” – a rivedere la sua decisione. Immediata la reazione e risposta di Luca Trapanese, assessore alle Politiche sociali del Comune di Napoli e padre di Alba, la bimba con sindrome di Down che ha adottato nel 2018. «Ezio Greggio, in un video, invita la madre naturale a ripensarci (…), le promette un cospicuo aiuto economico e chiude con la frase più brutta che io abbia mai sentito (…) quella che la madre adottiva di Enea non sarebbe “una mamma vera”. (…) Lasciare un bambino in ospedale (…) è fare una scelta d’amore: significa consegnare una vita nelle mani di qualcuno che potrà amarla e darle la possibilità di trovare la felicità. Enea non può ancora saperlo, ma la sua mamma probabilmente lo ha salvato. Per questo mi sento di dire alla madre di Enea GRAZIE!»

Culla per la vita: cos’è e perché nasce

La Culla per la vita è una struttura pensata appositamente per permettere alle mamme in difficoltà di lasciare il proprio bambino, garantendo loro l’anonimato e una condizione di sicurezza per il piccolo.

Davanti all’accesso esterno della struttura sono presenti una tapparella automatica termo-isolata, un citofono di comunicazione collegato con il reparto di Terapia Intensiva Neonatale ed un pulsante di comando per avviare l’apertura della tapparella e quindi della culla dove sarà possibile deporre il neonato. Una volta lasciato il bambino, la tapparella si chiude automaticamente e un allarme avvisa tempestivamente il personale medico che nel giro di pochi minuti si reca sul posto per prendere in carico il neonato.

A seguito dell’attivazione dell’apertura, la tapparella rimane aperta per circa un minuto. Se nessun bambino viene lasciato al suo interno, si chiuderà automaticamente ed il sistema sarà pronto per un’altra apertura. Se invece viene rilevata l’introduzione all’interno della culla del neonato, la tapparella si chiuderà immediatamente mettendo al sicuro in un ambiente termicamente adeguato il neonato. Una volta che la tapparella è chiusa ed al suo interno è presente il neonato, una successiva pressione del pulsante esterno non permetterà per motivi di sicurezza l’apertura della tapparella. Subito dopo la chiusura della tapparella viene inviata una segnalazione tramite un messaggio di testo ed un messaggio vocale preregistrato ai numeri preposti al prelievo del neonato (telefono medico di guardia, telefono terapia intensiva neonatale, portineria Clinica Mangiagalli) i quali se non interverranno entro un tempo di sicurezza prestabilito di 10 minuti verranno avvisati da un allarme acustico. La Culla per la vita del Policlinico di Milano, inaugurata nel novembre del 2007, è attiva da 16 anni. Quello di Enea è il terzo caso registrato.

Il primo neonato salvato con questo sistema è stato Mario, arrivato il 6 luglio 2012. Si è subito pensato fosse nato in casa per l’assenza di segni di punture nel piedino (modalità con cui si fanno i controlli di routine ai neonati appena venuti al mondo in ospedale). Il piccolo era nato prematuro (i medici stimavano alla 35esima settimana) pesava appena 1,7 chili e aveva circa una settimana di vita. Accanto, era stato lasciato un biberon con del latte materno e un paio di tutine. Il secondo bambino fu invece ritrovato nel febbraio 2016. Fu chiamato Giovanni e si stima avesse all’incirca due mesi. La sua data di nascita (in un giorno di novembre) fu difatti resa nota attraverso un cartellino che riportava questa informazione e alcuni aggiornamenti sui vaccini. Il piccolo pesava 5,8 kg, capelli scuri.

Ninna ho“, progetto a tutela dell’infanzia abbandonata, qualche anno fa ha condotto un’indagine volta a comprendere le ragioni del fenomeno dell’abbandono e del non riconoscimento dei neonati da parte delle loro mamme. È emerso come la causa principale sia il disagio psichico e sociale (37,5%), seguito dalla paura di perdere il lavoro o più in generale dai problemi economici (19,6%). Nelle donne migranti predomina invece la paura di essere espulse o di dover crescere un figlio da sole in un Paese straniero (12,5%). A seguire, la coercizione per il 7,1%; la giovane età (5,4%); la solitudine (5,4%) e la violenza (1,8%).

Sono queste le cicatrici che segnano il nostro Paese e l’abbandono di Enea lo testimonia. Un simile episodio pone la società dinanzi ad una serie di problematiche che faticano a trovare una risposta: mancano difatti i supporti necessari – economico, psicologico, sociale – affinché una donna possa portare avanti una gravidanza serena, allontanando così pensieri e sentimenti negativi quali la paura di non farcela, di non poter rispondere adeguatamente alle esigenze di un bambino, il dover abbandonare una parte di sé per tutta la vita.

Diritto all’anonimato vs gogna mediatica

Quella di Enea è una storia che non sarebbe mai dovuta divenire di dominio pubblico. Una donna ha portato avanti la gravidanza pur maturando dentro di sé la consapevolezza che non avrebbe mai visto crescere quel bambino. Una decisione importante, coraggiosa, probabilmente dolorosa. Una decisione non rispettata dai media che l’hanno data in pasto alla collettività. È venuto meno il diritto di decidere per sé e per la creatura a cui si ha dato la vita, il diritto all’abbandono e al non riconoscimento del neonato, il diritto al silenzio.

Credit: Pexels

La notizia è in prima pagina e gli appelli incalzano. Ci troviamo di fronte a un abuso, ad una violazione intima e personale. La richiesta di prendersi cura di Enea viene interpretata come un’implicita richiesta d’aiuto, un invito a rendere noto l’episodio affinché qualcuno possa aiutare la donna e il suo bambino. A lei, alla “mamma vera”, viene offerto un aiuto economico, un supporto collettivo, a patto che non rinunci al dono della vita. Rinuncia, per molti, giudicata inaccettabile, innaturale. Non si rispetta la sua volontà, la si colpevolizza, e si tenta disperatamente di manipolare la sua mente e il suo cuore in un momento tanto delicato come questo. Dietro ogni decisione vi è sempre una ragione che ha il diritto di essere personale e non condivisibile dal prossimo. Rispettare è il primo passo per porgere aiuto.

Enea, tuttavia, è bimbo fortunato. La decisione della sua mamma gli ha permesso di avere un futuro. Oggi Enea ha due genitori che lo aspettanoper iniziare assieme un lungo viaggio.

Aurora Molinari

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