Giuseppe Lupo è un noto scrittore e saggista italiano, di origine lucana, nonché professore di letteratura italiana contemporanea, presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e di Brescia. Autore di numerosi romanzi, gran parte dei quali pubblicati per la casa editrice Marsilio, Lupo ha ricevuto numerosi riconoscimenti, tra cui il Premio Selezione Campiello nel 2011 per il romanzo L’ultima sposa di Palmira, per il quale ha vinto, nello stesso anno, anche il Premio Vittorini.
Per la stessa casa editrice, Lupo ha pubblicato, nel 2019, anche il suo ultimo romanzo Breve storia del mio silenzio, grazie al quale ha ottenuto una candidatura al Premio Strega 2020. Nell’attesa di partecipare alla cerimonia, Giuseppe Lupo, costretto come tutti nelle mura domestiche a causa dell’emergenza Coronavirus, ha deciso di intraprendere la scrittura di un diario personale e – allo stesso tempo – collettivo, intitolato I Giorni dell’emergenza. Diario di un tempo sospeso, pubblicato in collaborazione con Il Sole 24 Ore e in edicola dal 18 Aprile 2020.
Il diario è uno scritto intenso e scorrevole, grazie alla sua divisione in brevi capitoli (come Mappe, Finestre, Fuga, Standby, Piazze, Parole), ciascuno dei quali indica un concetto, una parola-chiave, una sensazione vissuta individualmente dall’autore e intessuta nella ragnatela della collettività. Da dietro la prospettiva del vetro della propria finestra – o delle ormai fin troppo note mura domestiche -, la parola prende fiato in un excursus vorticoso di emozioni e avvenimenti di cronaca, spesso messi a confronto, dallo stesso Giuseppe Lupo, con estratti di altri scritti o teorie filosofiche, a cui si fa riferimento nel testo.
Impressionante è la capacità dell’autore di impersonarsi nei vari attori plausibili dello scenario quotidiano – e comune – d’emergenza e pandemia: nei ragazzi in “fuga” dal Nord, nei medici, nel Papa, nelle migliaia di italiani che cantano speranza sui loro balconi. Fa da sfondo al racconto lo scenario di una nazione nelle grinfie di un nemico finora sconosciuto. Nello scorrere ciclico e monotono delle giornate, questo diario suggerisce spunti di riflessione e metodi per guardare la realtà sotto una nuova prospettiva, che non è obbligatoriamente tragica.
In ciascuno dei capitoli, è celata una “morale del giorno” che invita alla creazione di una nuova normalità e l’adatta alla portata di tutti: per esempio, la delicatezza del momento in cui l’autore inizia ad apprezzare angoli della sua casa che, prima dell’emergenza, con la mente sempre in moto e il corpo sempre di corsa, passavano inosservati.
Giuseppe Lupo individua anche il ruolo degli italiani come popolo unificato e parificato di fronte ad un nemico comune e, nel capitolo Nazione, fa notare che era, oramai, dalla fine della Seconda guerra mondiale, che l’Italia non affrontava unita la sua storia.
Tra gli argomenti, non manca di fare un cenno alla situazione economica, in uno dei capitoli iniziali del diario intitolato Disattivismo: viene analizzata nel sua veste capitalistica, le cui fondamenta sono state minate dall’imperversare dell’epidemia, rendendola impotente di fronte ad essa.
La successione dei capitoli procede come un climax ascendens verso una sempre più interna dimensione del privato e del pubblico, nell’intimo di una popolazione solo fisicamente distante. Nelle fasi finali della scrittura, si percepisce un’astrazione dell’autore verso una realtà ideale in cui la parola ha un ruolo chiave ed egli stesso richiama l’importanza che, in realtà, la stessa ha sempre avuto, citando le vicende del Decamerone di Boccaccio.
Attraverso la parola, Giuseppe Lupo ha fatto la sua parte per aiutare gli italiani durante l’ emergenza, decidendo di accompagnarli, con il suo diario, durante le monotone giornate di isolamento domestico.
Delle ragioni di questa scelta, del valore attribuito alla scrittura e dei suoi obiettivi, racconta lui stesso nell’intervista, qui di seguito riportata:
Da cosa è scaturita l’esigenza, in un momento così inusuale e delicato, di riversare e fissare le sue emozioni in un diario? Qual è stata la sua consapevolezza peggiore e quale la sua epifania?
«L’idea è nata da Stefano Salis, giornalista culturale de Il Sole 24 Ore, con cui discuto quotidianamente di progetti. All’indomani del primo decreto della Presidenza del Consiglio, quando l’Italia è stata blindata, è venuto spontaneo pensare alle reazioni private e pubbliche di fronte a un’esperienza che non aveva precedenti, almeno in quelli della mia generazione. L’epidemia e l’essere privati delle forme minime di libertà sono state l’occasione da cui prende le mosse il diario. Seguire giorno dopo giorno le reazioni di una nazione, annotare comportamenti e confrontarli con la mia situazione domestica è stata la combinazione degli elementi. Ci siamo scoperti “altro” rispetto a quello che avevamo imparato a conoscere di noi».
Lei è Professore di Letteratura e Autore, principalmente, di opere narrative e saggi. Perché e come – in tempi di emergenza, paura e isolamento – è cambiato il suo modo di vedere e vivere la scrittura, considerando la sua scelta di un genere letterario privato e informale quale il diario?
«Una scrittura narrativa, se verrà, verrà nel tempo di dopo perché non puoi raccontare qualcosa che non è ancora finito. Di solito i romanzi sono scritti con lo sguardo al passato. Io almeno preferisco le storie che non siano radicate nell’oggi, perché esiste una differenza notevole tra cronaca ed epica. Io amo l’epica, non la cronaca. Per raccontare qualcosa che sta accadendo, non potevo che scegliere il genere diaristico. Oltretutto è una scrittura intima, segreta, come si addice a questi giorni in cui siamo stati (e lo siamo tuttora) chiusi in casa».
Qual è la finalità della sua narrazione: d’informazione e d’accompagnamento per i lettori o potrebbe avere anche un’intenzione didattico-pedagogica e di sostegno in un percorso catartico di conoscenza di sé?
«Raccontare è una forma per esorcizzare la paura, su questo per esempio si basa il Decamerone. Ma è anche una maniera per tracciare una linea, circoscrivere un orizzonte in cui riconoscerci tutti dentro un destino comune che, mai come in questo caso, è una lotta per la sopravvivenza. Esiste un senso di comunità quando si raccontano storie durante una fase di pericolo. Prima di questa epidemia, qualcosa del genere l’ho già vissuto durante il terremoto del 1980, quello conosciuto come terremoto dell’Irpinia, che ho peraltro raccontato nel mio quarto romanzo, ‘L’ultima sposa di Palmira’, e nel mio ultimo, ‘Breve storia del mio silenzio‘».
Dalla lettura di questa intervista, emerge la possibilità non solo di contestualizzare il diario, ma anche di improntare una prospettiva sul futuro. Traendo frutto dall’introspezione individuale che questo «tempo sospeso» ci ha dato modo di affrontare, Giuseppe Lupo, come tutti, si augura che gli italiani possano presto «stare ritti e stringere una bandiera vittoriosa».
Francesca Scola