Il Presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi incontra Trump alla Casa Bianca per riallacciare i rapporti con gli Stati Uniti. Per molti un’occasione sprecata per affrontare le violazioni dei diritti umani perpetuate dal regime nei confronti di oppositori e minoranze. Tra le vittime della politica di al-Sisi anche la nascente comunità LGBT.
Con la visita ufficiale del presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi alla Casa Bianca del 3 aprile che sembra aprire una nuova era nelle relazioni bilaterali tra Stati Uniti ed Egitto — superando il gelo che aveva caratterizzato il rapporto tra i due Paesi durante l’amministrazione Obama — la politica del presidente-generale torna al centro dell’attenzione mediatica internazionale.
Ma le violazioni dei diritti umani e la repressione delle minoranze in Egitto perpetuate dal regime di al-Sisi non sembrano interessare minimamente il presidente Donald Trump, il quale ha posto l’enfasi sul dichiarato impegno delle due parti nella lotta contro il terrorismo e nel garantire la stabilità regionale come base della nuova alleanza tra i due leader sorvolando ampiamente sulla questione del rispetto dei diritti fondamentali. Nonostante l’agenda americana sia da tempo centrata sulle questioni della sicurezza non sono mancate le voci ottimiste che hanno visto in questo riavvicinamento tra i due Paesi una possibilità per premere per una riforma politica in Egitto. Ma per adesso non sembra che ci siano aperture in tale senso e la situazione in Egitto resta gravissima: il regime utilizza sistematicamente la forza per reprimere il dissenso e giornalisti, attivisti e membri delle organizzazioni per i diritti umani sono costantemente ostacolati nel loro lavoro rischiando l’arresto.
Particolarmente colpiti sono gli individui appartenenti a gruppi minoritari e forse tra i più vulnerabili vi sono i membri della comunità LGBT. Queste persone, infatti, spesso non riescono a ottenere neanche il supporto delle organizzazioni dei diritti umani locali le quali hanno difficoltà a lavorare in un contesto sociale che stigmatizza e non riconosce i diritti degli omosessuali.
Nonostante non esista una legge che criminalizzi apertamente le diverse identità sessuali e di genere, gli arresti di persone LGBT non sono un fenomeno nuovo in Egitto.
L’accusa che viene mossa a queste persone è quella di “prostituzione” o “dissolutezza” secondo una legge del 1961. L’accusa è quella di fujur, l’immoralità di questi uomini, uno strumento di condanna morale più che un vero crimine inquadrabile giuridicamente. Il regime si fa infatti “guardiano della morale” costruendo, con l’aiuto dei mezzi di comunicazione, un discorso dominante omofobico che condanna gli omosessuali attraverso una retorica allarmistica volta a creare un “panico morale”.
La persecuzione sistematica delle persone LGBT inizia l’11 maggio 2001 con l’arresto di 54 persone che si trovavano sulla Queen Boat, un battello ormeggiato sul Nilo che ospitava una discoteca notoriamente conosciuta per essere frequentata da omosessuali. Questo episodio segna la fine di un lungo periodo di tolleranza della (nascente) comunità gay e l’inizio di un’operazione mediatica che demonizza gli omosessuali dipingendoli come «adoratori di Satana» e «perversi sessuali».
La retorica anti-omosessuali e gli arresti sono continuati durante il resto del governo di Mubarak, ma è con il regime militare di al-Sisi che si è assistito a un aumento degli arresti — almeno 250 secondo il New York Times — e ad un generale clima di paura e repressione. Le azioni della polizia sono diventate sempre più invasive e hanno finito per violare più volte la sfera privata degli egiziani, utilizzando i nuovi mezzi di comunicazione, e in particolare le applicazioni di incontri, per identificare gli appartenenti alla comunità LGBT. La pratica di adescare persone su Grindr, nota app di incontri gay, era diventata così diffusa da spingere i gestori dell’applicazione ad eliminare la funzione di geolocalizzazione per gli utenti connessi dall’Egitto e ad inserire un messaggio di avvertimento sul possibile utilizzo dell’app da parte della polizia.
Le organizzazioni per i diritti umani hanno denunciato i metodi utilizzati dal regime per “provare” l’omosessualità delle persone identificate e in particolare l’utilizzo dell’ispezione del canale anale. Questo test, oltre a non avere nessun valore scientifico comprovato, è considerato un trattamento disumano e degradante e quindi proibito da numerosi strumenti di diritto internazionale tra cui la Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti del 1984 firmata e ratificata dall’Egitto.
Molti analisti hanno provato a interpretare le ragioni politiche che spingono il governo a creare questo panico morale attorno alla comunità LGBT. La volontà di creare un nemico comune a cui addossare i problemi della società allontanando l’attenzione dalla gestione precaria dello Stato può essere sicuramente una valida spiegazione. L’arresto di queste persone, spesso spettacolizzato dai media, è rappresentato in termini di sicurezza nazionale. L’omosessualità è percepita come una degenerazione dei valori locali importata dall’occidente: “la globalizzazione della perversione” che minaccia lo Stato. Allo stesso modo vengono percepite come occidentalizzate le ONG che si occupano di diritti degli omosessuali, e vengono presentate come ingerenze le pressioni delle organizzazioni internazionali e dei governi stranieri per il rispetto dei diritti LGBT.
La strada per il riconoscimento dei diritti LGBT è ancora lunga in Egitto ed è preoccupante che tutti gli spazi (sia fisici che virtuali) utili per creare una coscienza colletiva e politica siano attualmente controllati da un sistema autoritario sempre più pervasivo.
Marcella Esposito