Anatomia di un safe space
(fonte: Wikimedia commons)

Di cosa si parla quando si parla di safe space? La parola safe in inglese significa “sicuro”. Per diverso tempo l’espressione safe space è stata usata, talvolta arbitrariamente, anche in Italia per parlare di contesti liberi da aggressioni e prevaricazioni. Il termine spazio sicuro, infatti, si riferisce a luoghi «destinati ad essere privi di pregiudizi, conflitti, critiche o azioni, idee o conversazioni potenzialmente minacciose».

In un report del 2023 di un collettivo torinese emergono le seguenti parole tese a identificare cosa sia un safe space: protezione, condivisione, collaborazione, comunità, antimachismo, rete di cura, autodifesa, libertà nel rispetto reciproco, corpi, alleanze, consenso, ascolto, rispetto, desiderio, coraggio, consapevolezza e limite.

Sebbene non si conosca precisamente l’origine esatta del concetto di safe space, tendenzialmente lo si fa risalire al movimento femminista degli anni ‘70, in quanto strumento per dar vita a spazi protetti per le donne contro ogni forma di violenza e per garantire alla collettività un luogo mediante cui attuare un concreto cambiamento politico e sociale. L’attivista e studiosa Moira Kenney osserva che: «lo spazio sicuro, nel movimento delle donne, era un mezzo piuttosto che un fine e non solo uno spazio fisico, ma uno spazio creato dall’incontro di donne alla ricerca di una comunità». Nel medesimo lasso temporale il termine safe space si è esteso anche alla comunità LGBTQIA+. Con spazio sicuro si intende, quindi, una dimensione fisica ed emotiva dove le persone si sentono riconosciute e possono trovare una reale e comune resistenza rispetto alla discriminazione, alla violenza e alla repressione politica, sociale e sessuale

La dimensione spaziale che fa da sfondo alla vita quotidiana, non è priva di conseguenze per chi la abita, sia per quanto concerne la sua configurazione macroscopica, sia quella microscopica, sia con riguardo a una metropoli urbana, sia un collettivo politico. Il sociologo Robert Park, negli suoi studi sull’urbanistica, ha affermato che «fra i tentativi fatti dall’uomo per plasmare il mondo in cui vive secondo i propri desideri, la città è il più coerente e nel complesso il più riuscito. Se la città è il mondo che l’uomo ha creato, è di conseguenza il mondo in cui è condannato a vivere». È necessario, però, soffermarsi sull’origine di questi desideri di cui parla Park e sulle soggettività che ne sono l’incarnazione. La costruzione degli spazi urbani non è neutrale, ma è frutto di precise scelte politiche e visioni del mondo. La collocazione delle strade, delle piazze, delle zone verdi e dei luoghi pubblici ha una sua precisa ragion d’essere e risponde a specifiche esigenze.

Spesso le città sono caratterizzate da una strutturazione degli spazi che rende più ostico per una donna attraversarli, ad esempio per mezzo di una netta segregazione delle attività produttive da quelle di cura, dove le esigenze delle diverse comunità non vengono prese in considerazione adeguatamente. Proprio per questo motivo, è emersa l’urbanistica di genere, che mira a un ripensamento e a una pianificazione dello spazio urbano tradizionale, tenendo conto delle esigenze dei diversi soggetti che compongono una città, al fine di renderla più inclusiva e aperta.

Come si costruisce un safe space

In qualsivoglia contesto che abbia come principio cardine il raggiungimento dell’inclusività, sarà necessaria una discussione sui safe space, che si tratti di un evento, un corteo, una serata ludica o un gruppo autogestito, la liberazione dei corpi potrà avvenire solo in un contesto realmente sicuro per queste soggettività. Nei safe space è di vitale importanza una pratica della cura di sé e dell’altrə che permetta di collettivizzare le proprie esistenze, di costruire un luogo fatto di ascolto reciproco, comprensione, accessibilità, libertà e sicurezza per tuttə

Inoltre, i safe space possono costituire un avamposto contro-egemonico in cui vi è, non solo la messa in discussione delle dinamiche di potere proprie della società patriarcale, ma anche lo scaturire di processi collettivi di decostruzione di un paradigma, spesso interiorizzato, razzista, abilista, sessista e omolesbobitransfobico. Un safe space, proprio perché mira a essere il contenitore di istanze e necessità così variegate, è fondamentale si configuri come uno spazio in continuo mutamento, in grado di valorizzare le esigenze che di volta in volta emergono. Uno spazio, dunque, che possa fare sintesi fra l’inclusività e al contempo l’esclusione di soggettività destabilizzanti per il safe space al fine di assicurarne la salvaguardia.

La scena ballroom può costituire un esempio foriero di interrogativi in merito a questa dicotomia. Nata nella New York degli anni ’70, nel quartiere di Harlem, raccoglieva le persone nere e latine appartenenti alla comunità LGBTQIA+ in un safe space rispetto al contesto repressivo americano. La ball culture di quel periodo, però, nasceva dalle ceneri degli scontri interni alla comunità queer. Nel 1972, infatti, Crystal LaBeija, una drag queen afroamericana, e Lottie LaBeija organizzarono la prima ball per sole drag queen nere. Seppur la ball culture a oggi sia caratterizzata da una forte inclusività e miri a essere sempre più accogliente, in quel periodo storico vi era la necessità di costruire anche uno spazio separato per una comunità razzializzata che era vittima quotidianamente dei soprusi delle persone bianche queer.

Per UN Women, un ente delle Nazioni Unite, i Safe Spaces for Women and Girls, «devono essere luoghi in cui sia donne e ragazze – con diverse appartenenze etniche e religiose, con disabilità, con diversi orientamenti sessuali e identità di genere, nonché le sopravvissute a violenza – si sentano fisicamente ed emotivamente al sicuro e a proprio agio nel partecipare alle attività proposte dallo spazio e ad accedere ai suoi servizi». Si tratta di spazi, dunque, in cui è garantito l’accesso a informazioni e servizi di cui le donne necessitano, vi è la possibilità di confrontarsi e di costruire reti comunitarie e di supporto in cui, in molti casi, non è prevista la presenza di un uomo, perché potrebbe «alterare in modo significativo la partecipazione di donne e ragazze».

Spazi sicuri in movimento

Grande attenzione ai safe space viene data anche nella pianificazione e realizzazione delle manifestazioni politiche dei gruppi transfemministi e in molti Pride. Le settimane di preparazione per la riuscita di questi eventi politici hanno sempre al centro una meticolosa attenzione per l’inclusività di tutte le soggettività, in contrapposizione al modello eteronormativo e abilista, che renda possibile la partecipazione e l’accessibilità a tuttə. Attraverso le pratiche transfemministe, chi organizza queste manifestazioni, fa spesso attenzione affinché siano ben identificabili le persone a cui chiedere aiuto durante i cortei, dà informazioni sulle barriere architettoniche eventualmente presenti, mira a garantire spazi di decompressione per soggettività con particolari esigenze, perché, come afferma il ricorrente slogan di Non Una Di Meno: «Gli spazi sicuri, li fanno le donne che li attraversano», insieme a tutte le soggettività che portano avanti pratiche di cura.

Celeste Ferrigno

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