Se ne parla da tempo, da circa un anno. Il Piano Mattei, il grande progetto geopolitico del governo di centrodestra guidato da Giorgia Meloni, che promette di rilanciare il protagonismo italiano in Africa, è diventato realtà appena qualche settimana fa con il passaggio parlamentare e soprattutto con un incontro, avvenuto a Roma, lo scorso 29 gennaio, alla presenza di quarantasei delegazioni provenienti da altrettanti Paesi africani che hanno preso posto sui banchi del Senato per ascoltare il discorso programmatico della Presidente del Consiglio, dei vertici dell’UE e dell’Unione Africana. Successivamente, le delegazioni sono state invitate a partecipare ai panel tematici introdotti dai ministri del governo italiano.
Com’è possibile comprendere, il Piano Mattei è un progetto davvero ambizioso, come ambizioso era l’uomo a cui il piano è stato dedicato. Oltre al nome, però, il governo ha promesso fatti, parlando di circa 5,5 miliardi di euro da investire in Africa tra crediti, operazioni a dono e garanzie: circa 3 miliardi dal fondo italiano per il clima e 2,5 miliardi e mezzo dal fondo per la Cooperazione allo sviluppo. La traiettoria tracciata dal governo Meloni si compone di cinque pilastri tematici su cui intervenire in modo “inedito” rispetto al passato, senza “logiche predatorie” e “micro-interventi” che nel passato non hanno funzionato. Un’esposizione di intenti notevole da cui dipende, in sostanza, il futuro della politica estera italiana nel continente africano.
Come spesso accade in politica, le parole si scontrano con i fatti. Non sono poche le zone d’ombra che caratterizzano il Piano Mattei, il quale oltre i proclami, rappresenta il connubio perfetto tra la necessità di affrontare un dossier scottante come quello africano e la propaganda, incanalata dall’esecutivo di centrodestra proprio sulla politica estera. Si tratta di coordinate il cui equilibrio si rivelerà fondamentale per rendere credibile la narrazione del governo sulla gestione degli affari africani. La partita, però, si giocherà chiaramente sui fatti e sulla capacità dell’Italia di rappresentare realmente un partner strategico per un continente in cui l’influenza di stati come Cina e Russia sta diventando predominante proprio grazie alla capacità dei cinesi di mettere in campo investimenti giganteschi senza alcun vincolo e dei russi di offrire un “apparato militare” di sicura affidabilità per la gestione degli affari interni dei regimi. Trovare spazio, per Roma, sarà davvero difficile.
Il Piano Mattei per l’Africa, visto da vicino
Il Piano Mattei, dal nome dello storico fondatore di ENI, è sostanzialmente un’iniziativa del governo Meloni col fine di orientare e dirigere una serie di attività di cooperazione internazionale, dai programmi culturali agli investimenti diretti nel continente africano, da realizzare sotto la direzione e la supervisione della Presidenza del Consiglio. La cornice istituzionale è il decreto legge di gennaio, in cui il governo ha stanziato i fondi necessari alla predisposizione della struttura amministrativa di Palazzo Chigi. Mentre gli investimenti dei singoli progetti attingeranno al fondo italiano per il clima – dal valore di 3 miliardi di euro – e a quello per la cooperazione allo sviluppo, dal valore di 2 miliardi e mezzo.
Si tratta, dunque, di un progetto che non prevede alcun nuovo stanziamento economico. Una svolta epocale per la politica estera italiana – almeno così è stato definito dal centrodestra – che difetta proprio della sua “voce” più importante: gli investimenti. Giorgia Meloni, in Senato, ha affermato come alla base del Piano Mattei ci sia una logica interventista totalmente differente rispetto agli approcci che, fino a questo momento, hanno guidato gli altri progetti. Nessun micro-intervento, bensì una strategia di lungo termine alla cui base ci sia un’idea di continuità.
I progetti saranno distribuiti su cinque aree tematiche, identificate in istruzione e formazione, sanità, agricoltura, acqua ed energia. La loro attuazione vedrà il coinvolgimento di istituzioni finanziarie internazionali, Stati, aziende private e società pubbliche partecipate (come ENI, Leonardo e Fincantieri). Il governo ha già esplicitato alcuni interventi, come la formazione professionale in Marocco, progetti di irrigazione in Tunisia e Congo, l’interconnessione elettrica tra Italia e Tunisia.
La sfida per il governo Meloni, però, non sta tanto nell’ideazione di progetti condivisibili e appetibili per i Paesi africani, bensì nel superare la logica di quel tipo di partnership in cui uno Stato economicamente avanzato si approccia con fare caritatevole nei confronti di uno la cui situazione economica è difficile. Un’impostazione “calata dall’altro” la cui inutilità è stata ribadita proprio da Moussa Faki, il presidente della Commissione dell’Unione Africana, che ha avuto modo di sottolineare come l’unico auspicio sia quello di una collaborazione alla pari e composta da fatti e non solo parole.
Alla base dell’interesse italiano – o meglio, del governo Meloni – per l’Africa, si inseriscono dinamiche che non fanno riferimento solamente alla necessità di rapportarsi con l’estero vicino. L’immenso continente a sud dell’equatore occupa un posto di primo piano nelle intenzioni di Roma per tre ragioni principali. La prima è chiaramente la causale energetica. L’Italia vuole diventare l’hub energetico del Mediterraneo e il coinvolgimento dell’Africa assume una dimensione fondamentale per perseguire questo obiettivo, come dimostrano le precedenti interlocuzioni con l’Algeria e l’Egitto per strappare un accordo energetico. Segue una questione interna, cioè la questione dell’immigrazione irregolare. Il governo Meloni intende dimostrare agli elettori fin dove è pronto a spingersi per affrontare la crisi migratoria, punto fondamentale del programma dell’esecutivo e che, fino a questo momento, ha “regalato” risultati davvero magri in termini di interventi efficaci. Infine, il ritorno di immagine. Roma intende dimostrare a Bruxelles la sua capacità di raccogliere attorno a un tavolo i principali leader di un continente in ascesa, così da suscitare un intervento europeo a cui l’Italia farà da capofila. Anche in questo caso, l’aspetto propagandistico, al di là dei risultati concreti, diventa fondamentale per ringalluzzire l’opinione pubblica interna in un periodo abbastanza difficile per l’esecutivo, il quale, coerentemente con una regola non scritta per la politica, ha preferito concentrarsi sulla politica estera.
L’Italia ha bisogno dell’Africa e non viceversa
Il Piano Mattei si inserisce nel più ampio contesto della cooperazione internazionale promossa dall’Italia, che si attua grazie al coordinamento tra l’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo e il Ministero degli Esteri. I fondi stanziati ammontano a 6,5 miliardi di euro, con un aumento del 5,6% rispetto allo scorso anno grazie alla comprensione dei fondi per la gestione dei rifugiati nel nostro Paese e la spesa “una tantum” per il piano infrastrutturale libico, in virtù dell’attuazione del trattato Italia-Libia del 2009. Il Piano del governo Meloni, dunque, si inserisce in una cornice nuova, quello della cooperazione paritaria. E il motivo è abbastanza semplice: l’Italia ha bisogno dell’Africa più di quanto l’Africa abbia bisogno dell’Italia.
Il continente africano è in ascesa e, secondo alcuni esperti, sarà il terreno prescelto per disputare la “nuova guerra fredda” tra USA e Cina. L’offerta di investimenti e di sicurezza non manca. Russia, Cina, Turchia, Emirati Arabi sono tra i nomi più ricorrenti. Ognuno di questi Paesi ha un settore privilegiato in cui far prevalere la propria forza. Mosca, ad esempio, ha puntato sulle compagnie mercenarie per dirimere gli affari interni, mentre la Cina e gli Emirati Arabi puntano sulle infrastrutture e i capitali. La Turchia, dal canto suo, si fa portavoce degli interessi dei Paesi di fede musulmana e puntando su una narrazione storica in quei Paesi un tempo appartenenti all’Impero Ottomano. La prima domanda che sorge a questo proposito, circa l’interessamento dell’Italia, è proprio questa: Roma cosa ha da offrire?
Ed è da questa domanda che dovrebbe partire una riflessione più generale circa mezzi e strumenti, non solo economici ma anche culturali, che il Belpaese ha bisogno di mettere in campo per guadagnare la fiducia degli Stati a cui si rivolge. A fronte di un chiaro arretramento delle democrazie di stampo occidentale – un esempio su tutti è la Francia – l’esecutivo Meloni dispone davvero di tutto il necessario per competere con queste grandi potenze senza essere sopraffatto dallo strapotere economico cinese e arabo o dall’efficacia dei mercenari russi e turchi? In più occasioni l’intervento di Roma in Africa si è risolto con una sconfitta diplomatica e politica cocente. L’esempio per eccellenza è la Libia, in cui l’influenza italiana, dopo Gheddafi, è andata progressivamente scemando tanto da aver perso il ruolo di interlocutore privilegiato negli affari esteri. E l’Italia è stata sostituita proprio da Russia e Turchia, senza contare la penetrazione saudita.
Da un punto di vista meramente programmatico, il rinnovato interesse di Roma per la questione africana è lodevole, ma i dubbi circa l’effettiva riuscita dell’operazione permangono. L’interesse per il grande continente a meridione dell’Europa è meritorio e necessario per l’Italia, per motivi economici e culturali, ma bisogna essere consapevoli che un singolo Stato può incidere ben poco su un intero continente. Roma ha bisogno dell’Europa, ma così facendo si assume una grande responsabilità. Bilanciare gli investimenti di Cina, Emirati, Arabia Saudita e di tutti gli attori protagonisti nel continente, sarà davvero difficile senza una cornice multilaterale di Stati e istituzioni finanziarie internazionali. Senza un’adeguata cabina di regina – che non si limiti soltanto a Palazzo Chigi – il Piano Mattei rischia seriamente di essere solamente una scatola vuota, piena di propaganda.
Donatello D’Andrea