Carver

Di cosa parliamo quando parliamo d’amore. Mai titolo fu più azzeccato: cosa può richiamare l’attenzione di un potenziale lettore se non la promessa da parte di Raymond Carver, il più grande scrittore americano di racconti, di arrivare a far luce sul nocciolo del più indefinibile dei sentimenti? Se solo ci fosse un punto interrogativo alla fine di quel titolo, cambierebbero molte cose. Ad esempio penseremmo che in fondo l’autore non è poi così convinto della risposta, e che attraverso la sua opera voglia creare una sorta di dibattito col lettore offrendogli una sua personalissima opinione, discutibile e integrabile, di che cosa sia l’amore. Tuttavia quel punto di domanda non c’è, e allora tutta la faccenda prende un altro sapore: quel piccolo libro di un centinaio e mezzo di pagine non lo si apre più con l’intento di “discutere” d’amore, ma con quello di farsi dire, una volta per tutte, cosa esso sia veramente.

Eppure non è così semplice. D’altronde, rimanendo al titolo scelto da Carver, se davvero fosse possibile e magari anche semplice definire e trasmettere di cosa parliamo quando parliamo d’amore, a nessuno verrebbe in mente di incuriosirsi verso un libro che preannuncia di illuminare qualcosa di ovvio. Rimarrebbe lì, sul suo scaffale a prender polvere in compagnia di tutte quelle letture non indispensabili che fanno luce dove la luce regna già, senza punzecchiarci l’anima, che poi è quello che chiediamo di fare ai libri. Di certo non sarebbe una delle raccolte di racconti più celebri e vendute dello scrittore americano, che pure di roba “carina” ne ha scritta e non poca.

Fonte: psicosintesi.org

E allora perché? Che cosa non ci è chiaro di tutto questo “amore”, spacciato talvolta per motore del mondo e talvolta per specie in via d’estinzione. al punto da bramare così tanto di farcelo dire?
Se il libro fosse di Moccia. non me ne voglia, beh forse incuriosirebbe meno. Di quell’amore lì e del sapore del miele, tutti sanno già tutto. Anche dell’innamoramento non vorremmo sentirci dire molto: troppo soggettivo, transitorio, inspiegabile. Sull’amore che strappa i capelli, poi, si sono scritti racconti e romanzi capolavoro, si potrebbero prima leggere quelli.
Ma a trattare l’argomento, nel 1981, è Raymond Carver, che ha passato l’esistenza a scrivere non della vita, bensì delle sue pause. E allora tutto cambia. C’è un amore di cui sappiamo tutti molto meno, non perché non lo viviamo, ma perché ci piace far finta, forse, che non esista o che infondo non sia così importante. Parlarne può essere quasi fastidioso, come uno spiffero gelido da tappare e tener fuori dalle nostre quattro mura.  Non è dolcezza e carinerie. È un amore con la a minuscola, meno nobile e immacolato, ma che non per questo ci riguarda meno. È tutto ciò che regge il vestito a quello di cui parliamo quando abitualmente parliamo d’amore: un sentimento svuotato dei suoi vecchi eccessi e sfibrato dal più sottovalutato degli avversari: la quotidianità.

A Carver non interessa come si compia il sogno americano, a Carver interessa ciò che sta aldilà del sogno, o meglio, nel mezzo di esso, incastrato in quelle pause della vita, dei dialoghi, o anche soltanto di un semplice movimento delle mani in cui nulla sembra accadere, ma dove tutto, in realtà, accade.
La fine di uno qualsiasi dei diciassette racconti che compongono Di cosa parliamo quando parliamo d’amore coincide quasi sempre con una domanda da parte del lettore che solo i racconti di Carver possono vantare, e la domanda è: “e quindi?”.
Si è spesso convinti che il significato di qualcosa sia da ricercare nel suo esito finale, e allora, abituati alle storie che che si completano, ci piacerebbe sapere come vanno a finire queste diciassette fotografie di vita. Che cosa succeda dopo l’ennesima boccia di whiskey trangugiata da un personaggio, quale reazione si scateni dopo un tradimento scoperto, che decisioni prenderà una donna insonne il cui marito dormiente le ricorda un lumacone, dove andrà a finire il dibattito fra due coppie ubriache su che cosa sia l’amore, che ne sarà di quel bambino tirato come una fune e conteso fra due genitori che si stanno urlando addosso un addio. Ci piacerebbe sapere se quel pasticciere vedrà mai ritirata la torta del bambino investito da una macchina il giorno del suo compleanno, oppure come finirà la nottata di due giovani mariti che lasciano le loro mogli a casa a badare ai figli e iniziano a mettere gli occhi addosso alle ragazze per strada. Forse sì, tutto questo sazierebbe la nostra curiosità. Ma ciò che interessa a tanti di noi, purtroppo o per fortuna, non interessa a Carver. E allora i finali sono troncati, le frasi stringate e i dopo taciuti, forse perché superflui e in fondo fatti della stessa sostanza di cui è fatto quel presente sospeso in aria e ripreso da Carver come in tanti piccoli cortometraggi.

Raymond Carver Fonte: internopoesia.it

Ciò che rimane di Di cosa parliamo quando parliamo d’amore è, in un certo senso, tutto ciò che Carver, penna simbolo del minimalismo, non ci ha voluto dire, ma ci ha spinti a immaginare. Tutto sembra non avere senso, finché non arriva quella frase. quell’espressione, quel gesto – non necessariamente gli stessi per chiunque stia leggendo – che risvegliano delle intuizioni, e improvvisamente ci pare che tutto ciò che di solito tendiamo a considerare accessorio, in realtà è ciò che più scandisce il nostro vivere, perché dietro qualunque gesto, anche il più insignificante, c’è tutto il nostro essere umani.

E allora scopriamo che l’amore, forse, non è un gigante dal cuore tenero, ma una sostanza mai veramente afferrabile, che passa all’interno di fessure sottili quanto un silenzio o un cenno del capo, le stesse fessure dai quali gli occhi di un vecchietto coperto di gesso dalla testa ai piedi dopo un grave incidente non riescono più a vedere il volto della moglie adorata, e la danno vinta alla depressione.
Perchè la vita, per quanto se ne dica, è lunga, così lunga che fare i conti con la routine diventa un obbligo al quale chiunque deve sottostare, persino il più nobile dei sentimenti, e Carver, figlio di un operaio di segheria e di una cameriera, questo lo sapeva fin troppo bene. Nella sua vita ha faticato tanto e fatto qualunque lavoro gli si parasse davanti, per poi lasciarsi sgretolare dalla morsa dell’alcool a cinquant’anni.

Daniele Benussi

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