Negli anni Trenta e Quaranta, il regime fascista attuò un programma architettonico che interessò tutte le province italiane. L’obiettivo era quello di proporre un’ideale rinascita della romanità mediante un’architettura di Stato, caratterizzata dalla modernità in ogni suo aspetto: le città si vestirono di un cosiddetto stile Barocco geometrizzato, con la magnificenza di strutture tanto maestose quanto funzionali.
In questo gigantesco piano urbano, Napoli si presentava come città ideale da poter essere riedificata sul modello dell’antico Impero romano, o recuperando gli elementi dell’antico passato glorioso, o distruggendo e riedificando luoghi considerati obsoleti.
Benito Mussolini, in un celebre discorso tenuto al teatro di San Carlo, quattro giorni prima della presa di potere, definì Napoli la regina del Mediterraneo e concorse talvolta in prima persona nell’attuazione del piano architettonico.
Il fervore delle intenzioni tuttavia si tradusse in azioni pressoché inconsistenti: gli interventi principali riguardarono per lo più il riempimento di spazi vuoti lasciati dalle bombe del ’43. Se incompiuti rimasero diversi progetti, altri si limitarono a disegni, planimetrie, carteggi; una delle cause principali dell’impossibilità di attuare il disegno architettonico fascista risiedeva nello status di afflizione in cui versavano le finanze pubbliche napoletane. Occasione, questa, abilmente sfruttata dal duce che istituì l‘Alto Commissariato per Napoli e per la provincia, organo utilizzato per riproporre l’autorità del Fascismo: nelle mani della nuova istituzione furono cedute le amministrazioni del Ministero dei beni pubblici e del Comune, vale a dire le decisioni inerenti al Porto di Napoli, alla sistemazione della zona orientale e a quella industriale, le case popolari, le industrie, la bonifica delle aree paludose, i collegamenti Napoli-Roma, la modernizzazione della Cumana e delle funicolari del Vomero.
Tra i cambiamenti più importanti della fase fascista ricordiamo il definitivo isolamento del Maschio angioino. Attribuibile allo stesso periodo è anche l’allestimento della Mostra d’Oltremare, nata come celebrazione della Napoli fascista nel 1940, inaugurata in concomitanza con la stazione della cumana di Piazzale Tecchio. Solo tre anni dopo, venne rasa al suolo dai bombardamenti e riedificata non più in relazione al regime sotto il quale sorse ma in funzione dell’urbanistica napoletana, con la funzione di apertura del centro verso i Campi Flegrei.
Quasi integralmente risalente allo stesso periodo è piazza Giacomo Matteotti, nelle cui strutture maestose è facile incontrare il gusto dell’architettura fascista. Essa si presenta circondata di sculture di personaggi storici appartenenti per lo più alla prima guerra mondiale, in un clima di gloria patriottica.
Analogamente, rimanda al ventennio fascista anche il Palazzo delle Poste, costruito nella sede del Rione Carità sotto la supervisione di Mussolini stesso, il Palazzo della Questura e l’ex Casa del Mutilato, a ridosso dei quali troviamo il Palazzo Troise.
La sopracitata cumana di Piazzale Tecchio avrebbe avuto invece la funzione di condurre alla Mostra, anticipandone l’ingresso. E, in occasione del 27 gennaio 2018, data consacrata alla Memoria, il sindaco Luigi de Magistris ha annunciato la notizia che Piazzale Tecchio cambierà nome: sarà Piazzale Giorgio Ascarelli, mentre via Vittorio Emanuele III diventerà via Salvatore Morelli.
«Piazzale Vincenzo Tecchio, l’ex segretario provinciale del partito nazionale fascista, si chiamerà piazza Ascarelli. Il mio annuncio del giorno in cui ricordiamo Luciana Pacifici, una delle più piccole vittime della ferocia nazista, morta ad Auschwitz. Anche via Vittorio Emanuele III, che promulgò le leggi razziali, cambierà nome in via Salvatore Morelli. Per non dimenticare, mai!»
Il nome del piazzale sarà quindi consacrato alla memoria di Giorgio Ascarelli, fondatore del e primo presidente del Calcio Napoli e del primo stadio partenopeo, nel 1930. Un uomo che ha fatto tanto di buono per Napoli e la cui memoria era stata cancellata a causa delle sue origini ebraiche.
La scelta risiederebbe nella volontà, ampiamente condivisa, di cancellare dalla toponomastica della nostra città le macchie di un periodo che, com’è bene ricordare in questo preciso momento politico, ha rappresentato e sempre rappresenterà una piaga vergognosa della storia e un oltraggio nei confronti del genere umano.
Sonia Zeno