«SEXISTISCHE KACKSCHEISSE («merda sessista») tuonavano in fucsia su sfondo nero, e li avrei presto visti apposti, magari a censurare gli attributi sessuali, sulle pubblicità che presentavano corpi di donne […] Mi stupiva, e forse mi infastidiva, confesso, che pure in ambienti così radicali si ricorresse alla censura. Mi sembrava che il messaggio stridesse con il medium. Quegli adesivi così aggressivi mi piacevano, ma mi atterriva il loro utilizzo. Perché, mi chiedevo, li trovavo sempre solo su corpi femminili?»1
È, questa, una delle tante domande che percorrono Ripartire dal desiderio, il primo saggio di Elisa Cuter, edito da minimum fax nel novembre del 2020. Forse non la più rappresentativa: sarebbe difficile sceglierne una, perché è difficile sussumere sotto un solo interrogativo un saggio che di un problema restituisce la profonda complessità, percorrendone le traiettorie più insidiose, senza mai rinunciare a mettere e a mettersi in discussione. Mescolando delicatamente lucide critiche a racconti personali, Cuter è capace, più di ogni altra cosa, di esporsi, di porre domande taglienti, lasciando ampi spazi di riflessione. In altri termini, è capace di correre un rischio, seguendo la strada impervia del desiderio.
Corpi femminili, dunque. C’è, in effetti, qualcosa di sintomatico nel fatto che un certo femminismo consideri di primaria importanza censurare le rappresentazioni “oggettificate” dei corpi femminili. Dopotutto, come nota Cuter, nessun adesivo è comparso «sul pacco di Beckham» quando si è prestato a pubblicizzare prodotti indossando solo un paio di slip striminziti, né ci sono stati uomini a sentirsi umiliati in quanto maschi da quelle immagini. Di contro, certi nudi vengono etichettati (letteralmente, in questo caso) come “merda sessista” proprio perché sono corpi femminili, prima di qualsiasi altra cosa. Come una donna, prima di qualsiasi altra cosa, è stata considerata anche la fedele schiaffeggiata da Papa Francesco nel dicembre 2019: non una persona troppo insistente, non una credente in piazza San Pietro; ma una donna schiaffeggiata da un uomo, il Papa, che, infatti, scusandosi ha ammesso che «le donne non si toccano neanche con un fiore». Ed è sempre in quanto donne che si sono sentite chiamate in causa le protagoniste della campagna #metoo, rispondendo con questo hashtag ai racconti di molestie sessuali subite da altre donne: #metoo, anch’io, anch’io donna e quindi anch’io vittima di molestie. È questa l’inferenza implicita nei tre casi sopracitati: il corpo nudo sul cartellone pubblicitario appartiene ad una donna, che quindi è vittima di sessismo; la fedele schiaffeggiata dal Papa è una donna, che infatti è vittima di violenza maschile; tutte le donne possono esclamare #metoo perché, essendo donne, sono vittime di molestie. Sembrano esserci, in quest’inferenza, due pericolosi automatismi: quello che vuole considerare una donna come una donna, prima ancora che come una persona, e quello che fa della molestia sessuale un tratto definitorio dell’identità femminile. Di #metoo, infatti, pur riconoscendogli il merito di aver messo in luce l’ampiezza di un problema, l’autrice teme «che il prodotto finale porti a un sillogismo perverso: sono stata una vittima (di un ricatto, una molestia, un abuso) ergo sum femmina. Viceversa, se sono di sesso femminile, avrò sicuramente un episodio di discriminazione di genere o di molestia sessuale da raccontare: basterà andare a cercare nella memoria»2. L’attuale femminismo ha, per l’autrice di Ripartire dal desiderio, il demerito di non aver sradicato quest’inferenza.
Alimentare una narrazione che lega indissolubilmente alle donne i soprusi subiti ha, infatti, almeno un effetto collaterale: il rischio che i soggetti cui è stato assegnato questo genere si costituiscano solo in qualità di “vittime potenziali”, facendo, di fatto, ruotare la propria identità attorno a questa condizione di subordinazione. Il femminismo «con il ditino alzato che dice che non si fa, che non sta bene, e te lo dice per il tuo bene»3, reputando l’oggettificazione dei corpi moralmente sbagliata e mai emancipativa, fa esattamente questo: alimenta la retorica della vittima, guardando al corpo oggettificato innanzitutto come ad un corpo femminile che, per questo, va tutelato. A ben vedere, però, non è solo il femminismo a macchiarsi di neopuritanesimo: l’attenta critica in Ripartire dal desiderio smaschera anche tutte le istanze della moralizing left che vorrebbe garantire la tutela delle minoranze a colpi di censura e sacrificio. In questa gara collettiva a chi patisce le pene peggiori, persino l’alt-right che avverte la minaccia del politicamente corretto ha finito col qualificarsi come vittima dello stesso. Questa istanza moralizzante è inefficace prima di tutto perché ritiene di poter restituire dignità alle minoranze assicurandone l’inclusione: eppure, siamo sicuri che una società con più donne al potere e più sangue mestruale in TV sarebbe una società più equa? Per Cuter, decisamente no. In un contesto di sfruttamento come quello attuale, in cui nessuno spazio della vita privata è avulso dal capitale, «tutti, indipendentemente dal loro genere, si percepiscono sempre come merce»4. La mercificazione ininterrotta del corpo e del sé alla base del capitalismo odierno, nota l’autrice, ha esteso alla società tutta la condizione di subalternità che prima apparteneva alle sole donne: questa “femminilizzazione” della società, nel senso tradizionale e ideologico di “femminile”, ha reso tutti, indifferentemente, oggetti passivi. È per questo che l’emancipazione dei subordinati non dipende dalla loro inclusione, ma dal sistema in cui vengono inclusi e celebrare l’empowerment nella lotta al patriarcato è piuttosto miope: non solo perché l’ingresso nel mondo del lavoro, benché auspicabile, non è risolutivo, ma anche perché alimenta l’idea che il patriarcato sia avulso dal sistema, un nemico essenziale, un peccato originale. In secondo luogo, la retorica dell’inclusione fallisce perché manca di desiderio. L’imperativo del “check your privilege!”, del sacrificio in nome della “cosa giusta da fare”, del senso di colpa interiorizzato per la propria posizione di vantaggio non è abbastanza radicale, perché non costruisce un’azione in nome di un comune desiderio di cambiamento, ma di una morale forzata. Si lascia, così, un ampio raggio d’azione al fascismo che, di contro a questo imperativo alla cura, inneggia alla trasgressione e alla deresponsabilizzazione e il tentativo di sovversione, lungi dal mettere in discussione il sistema, si trasforma in «one more fad to be absorbed into the eternal present of the culture industry», come scrive Todd Hoffman nella sua recensione a Realismo Capitalista di Mark Fisher. Chi moralizza «ha mai considerato che potrebbe essere letto da gente che ne ha fin sopra i capelli di sentirsi fare la morale dell’empatia e della carità per chi sta ancora peggio? Che è stanca di sobbarcarsi il lavoro di cura (di sé e degli altri, e dei poveri più poveri di lei mentre fa una vita già misera)»5? Non c’è rivoluzione nell’autoflagellazione, con buona pace di chi pensava che i disclaimer di introduzione ai film con contenuti razzisti fossero un grande passo avanti. Non serve, forse, infantilizzare i fruitori dell’arte suscitando in loro una preventiva compassione nei confronti delle vittime di emarginazione, quanto imparare ad esperire, attraverso l’arte, come scrisse Theodor Lipps, anche tutto «il negativo, il fastidioso, l’avverso», perché «non vi è alcun mezzo più energico per permettere all’elemento positivo nell’essere umano di introdursi in noi e di venire coesperito, della sua negazione», e questa negazione, talvolta, consiste anche «in ciò che è malvagio e raccapricciante»6.
L’arte conserva il suo potere rivoluzionario perché è capace di farci uscire da noi stessi, proprio come il desiderio. E se c’è qualcosa che il sesso può insegnare alla società, è che le relazioni con l’altro non possono compiersi entro i confini di un safe space ipernormato, ma richiedono un conflitto, una destabilizzazione, un rischio per la propria identità conciliata. I soggetti che chiedono di essere riconosciuti innanzitutto come vittime, e anche chi incoraggia questa identificazione, alimentano una richiesta di tutela, che è prima di tutto una tutela dall’altro, dalla relazione, dall’incontro. Ripartire dal desiderio, allora, significa assumersi il rischio di assecondare una “rivoluzione permanente”, come può essere quella del desiderio, appunto: superare i propri confini, assecondandolo, senza sapere dove porterà.
Siria Moschella
1 Elisa Cuter, Ripartire dal desiderio, minimum fax, 2020, p. 27.
2 Ivi, p. 109.
3 Ivi, p. 158.
4 Ivi, p. 82.
5 Ivi, p. 197.
6 Theodor Lipps, Empatia e godimento estetico, trad. it. di Andrea Pinotti. L’originale Einfühlung und ästhetischer Genuß è apparso in Die Zukunft, 54, gennaio 1906, pp. 100-114.