Essere antispecista oggi non implica essere vegani
Vegans at the Animal Rights Protest in London - 18th August 2018

Ha fatto molto discutere un nostro recente post sul rapporto fra discriminazione e sfruttamento, e in particolare fra veganismo, antispecismo e liberazione animale. La tesi espressa nel post è che, a differenza di quanto tradizionalmente ritenuto in ambito vegano e animalista, sia possibile essere contro la discriminazione basata sulla differenza di specie (specismo) pur non essendo vegan. Apparentemente la faccenda è di quelle per soli addetti ai lavori, e di carattere esclusivamente teorico. In realtà è di interesse comune, perché da essa dipende se le persone non vegane che si avvicinano alla questione animale possano essere incluse o meno nel movimento, e come. Infatti il tema che abbiamo posto sui social, e che qui riprendiamo articolando e approfondendo il ragionamento, comporta il superamento della “pregiudiziale vegana” (cioè il veganismo come conditio sine qua non per una piena inclusione e un pieno riconoscimento nel movimento) che, contribuendo oggettivamente a farci restare pochi, ci relega a una condizione di minorità che è ad oggi uno dei motivi della nostra debolezza. Essere (o comportarsi da) vegan, infatti, è tuttora un requisito implicito o esplicito per accedere a ruoli apicali e/o di responsabilità nelle organizzazioni per la liberazione animale. In alcune di esse, come Anonymous for the Voiceless, non è ammesso che persone non vegane facciano sensibilizzazione in strada. I vegetariani possono partecipare ai “Cubi” (azioni dimostrative e di sensibilizzazione) ma non possono parlare con i passanti. Consapevoli di questa problematica, alcuni leader del movimento stanno cercando di cambiarne la percezione delle persone non vegane. Per l’attivista, formatore e divulgatore Tobias Leenaert, sostenitore di un approccio “pragmatico” al veganismo, dovremmo interessarci più al risultato che alla coerenza comportamentale e alla purezza morale, e questo passa anche dal ridimensionamento dell’importanza che attribuiamo al veganismo. Sulla scorta del concetto di ally, (una persona estranea al gruppo discriminato e/o sfruttato ma che ne sostiene la lotta) recentemente diffuso nei movimenti e nella riflessione sulla giustizia sociale, la psicologa, divulgatrice e autrice Melanie Joyincita a considerare le persone non vegane ma positivamente disposte nei confronti dei diritti e/o della liberazione animale come vegan allies, cioè alleate dei vegani/del veganismo. Che qualcuno metta in discussione la pregiudiziale vegana fa ben sperare per il futuro del movimento. Ci sembra tuttavia che più che di alleati dei vegani/del veganismo ci sia bisogno di alleati della liberazione animale, e che perciò la necessità di considerare antispeciste le persone alleate sia oltre che – come diremo – di ordine logico, anche di ordine strategico.

Quale è la differenza tra veganismo e antispecismo?

Per capire meglio il problema può essere utile partire dalla terminologia. Che significano “veganismo”, “antispecismo”, “liberazione animale”, e cosa sono la discriminazione e lo sfruttamento?

Secondo la Vegan Society, che ha coniato e definito il termine, il veganismo è «uno stile di vita che cerca di escludere, per quanto possibile e praticabile, ogni forma di sfruttamento e crudeltà nei confronti degli animali, sia essa legata alla produzione alimentare, di indumenti o a qualsiasi altro scopo». In sostanza è una filosofia pratica, un’etica applicata alla vita di tutti i giorni che può anche scavalcare la dimensione privata dell’esistenza per farsi “di gruppo” – e spesso lo fa; ma la cui essenza è quello “stile di vita”. Cioè qualcosa di costitutivamente aperto e plurale, che ammette (o almeno non nega di principio) le esistenze di altri stili di vita, che non ha insomma un progetto universalistico. L’antispecismo, invece, è la negazione dello specismo. Per lo psicologo Richard Ryder, creatore del termine, lo specismo è un “argomento emotivo dettato dall’egoismo” che ha a che fare con il modo in cui trattiamo gli animali non umani, che generalmente indica un trattamento sfavorevole nei loro confronti e, di contro, favorevole nei confronti della specie umana. Sarà Peter Singer, in collaborazione e come proseguimento del lavoro di Ryder, a definire filosoficamente lo specismo come “pregiudizio o atteggiamento discriminatorio in favore degli interessi dei membri della propria specie e contro i membri di altre specie” (Singer, 1975). Si tratta di un concetto elaborato in stretta ed esplicita continuità con “razzismo”, “sessismo” e gli altri “ismi” discriminatori, cui è accomunato dal fatto di essere basato sulla valutazione negativa di tratti psichici e fisici che sono di per sé neutrali: nel nostro caso, il colore della pelle, il genere e la specie di appartenenza. Questa è anche una definizione comune di “discriminazione”. Difatti l’antispecismo di seconda generazione ha criticato le prime teorizzazioni antispeciste proprio in virtù della loro iper-focalizzazione sugli aspetti culturali e simbolici della questione animale; nonché per il fatto che, interpretando lo specismo come argomento, come pregiudizio e come atteggiamento, la loro dimensione era troppo individualistica. Il sociologo David Nibert, per esempio, ha detto che la discriminazione che colpisce gli animali non umani non è tanto e solo un pregiudizio individuale, quanto un’ideologia che tenta di giustificare e razionalizzare l’arbitrarietà di un sistema di sfruttamento materiale (Nibert, 2002). Per la sociologia, dice Nibert, il pregiudizio arriva dopo, non prima dello sfruttamento dei gruppi discriminati, e spesso è creato ad arte dall’élite dominante. Successivamente, il filosofo marxista antispecista Marco Maurizi, membro di questo collettivo, articolerà e chiarificherà la questione del rapporto fra discriminazione e sfruttamento materiale fissandolo nella famosa frase “non è affatto vero che noi sfruttiamo gli animali perché li consideriamo inferiori, piuttosto li consideriamo inferiori perché li sfruttiamo” (Maurizi, 2011), e ideerà l’espressione “antispecismo politico” per indicare un approccio marxista alla questione animale. A questo proposito, le riflessioni del secondo mettono a tema anche l’humus filosofico e politico neoliberal del primo antispecismo, condiviso tanto da Ryder e Singer che dai teorici successivi e anche contemporanei – ma assimilabili a quell’indirizzo teorico –come Regan e Francione. Si scava un solco fra antispecismo di prima generazione e/o morale-metafisico (come definito da Maurizi stesso) e antispecismo di seconda generazione. In particolare, si scava un solco con l’antispecismo “politico”. Ma cosa significa politico?

L’aggettivo “politico”, in questo contesto, significa da un lato l’allargamento dello sguardo dalla sola questione animale al più ampio quadro sociale nel quale essa si situa, cui si collega e nel quale assume un significato compiuto e storicamente determinabile. La discriminazione e lo sfruttamento degli animali non umani hanno conseguenze anche sugli animali umani e sull’ambiente, dunque non è questione di interesse solo di alcuni ma riguarda tutti e la società nel suo complesso, incidendo sulla qualità della vita comune. In questo senso, l’antispecismo non riguarda solo animali e animalisti, ma l’intera polis. L’intera “città” umana. Ma se questo argomento dell’antispecismo politico ha convinto molti antispecisti, che potevano usarlo strumentalmente contro la diffusa indifferenza per la questione animale e pur senza interessarsi alle questioni umane un grammo in più rispetto a prima, l’essenza dell’antispecismo politico giace altrove. Dall’altro lato, infatti, che l’antispecismo sia “politico” significa che fa sua la tesi del materialismo storico (sono le forze materiali a muovere la ruota della storia, non quelle culturali) e del rifiuto dell’individualismo metodologico (cioè del rifiuto dell’idea che la società e le sue dinamiche siano costituite dalla somma degli individui che la compongono, dalle loro idee e dalle loro azioni piuttosto che da logiche oggettive e impersonali); e che prende le distanze dall’impostazione neoliberal tipica del primo antispecismo, nella quale è rimasta incastrata la maggior parte del movimento italiano contemporaneo.

Questo approccio rende ragione della tesi espressa nel post di cui abbiamo parlato inizialmente, ovvero che non sia necessario essere vegan per essere antispecisti e che anzi la pregiudiziale vegana (al contrario di quanto si pensi e anche quando è posta non come barriera d’ingresso al movimento ma come meta finale che chiunque voglia farne parte deve raggiungere a prescindere dal cambiamento della società nei suoi modi produttivi e nel suo complesso), depotenzia il movimento e inficia la causa di liberazione animale. Infatti se per sfruttare non è necessario – semmai solo utile, dipende dal contesto storico e sociale – discriminare, allora, dato che lo specismo è una forma di discriminazione, si possono sfruttare gli altri animali anche senza discriminarli e senza che il motivo del loro sfruttamento sia la discriminazione. Perciò si può non essere vegan (e quindi partecipare allo sfruttamento degli animali non umani) eppure non discriminare gli altri animali, o comunque senza che la discriminazione sia la causa della propria condizione e del proprio comportamento. Negare questa conclusione è impossibile a meno di negare il materialismo; ma allora si rientra nel campo dell’antispecismo morale-metafisico, che era ed è appunto idealista.

Si può essere antispecisti senza essere vegani?

Definizione di veganismo della Vegan Society alla mano, si potrebbe obiettare che chi non è vegan però si oppone all’obiettivo fondamentale del veganismo: ovvero fare quanto possibile e praticabile per non sfruttare gli altri animali. Ma questa obiezione è problematica perché non è chiaro in che senso si intenda l’espressione “non sfruttare gli animali”, né come debba precisarsi quel “possibile e praticabile”. Anzitutto, chi non è vegan “discrimina” per questo gli animali? Sembra una conseguenza necessaria ma cosa significa “discriminare”? “Discriminare” è un atto soggettivo-individuale? Deriva interamente dalla “volontà” dei singoli? Pensiamoci: in effetti la ragione per cui non facciamo molte delle cose che potremmo fare è che ci mancano le forze per farle, non che decidiamo deliberatamente di non farle. Questo è particolarmente vero in una società come la nostra, che induce esaurimento, apatia e indifferenza – oltre a disturbi psichici propriamente intesi (si legga per esempio M. Fisher, 2009). Ciò che non dipende interamente dalla volontà individuale, perché esito di processi complessi in cui l’individuo è parte, comporta un giudizio più sfumato e articolato del bianco/nero implicito nelle scelte morali astrattamente considerate. In secondo luogo, definire ciò che è possibile e praticabile è problematico, e se affrontassimo seriamente la questione dovremmo probabilmente concludere che cosa si possa realisticamente fare non è determinabile a priori, ma varia caso per caso. Infatti alcuni vegani criticano la definizione di veganismo della Vegan Society perché la trovano ambigua.

In qualche caso si può addirittura non essere vegan ed essere convintamente antispecisti. Che accada spesso o di rado non toglie la possibilità che accada, e la questione smette di essere di interesse esclusivamente teorico nel momento in cui la possibilità può trasformarsi (o essere attivamente trasformata, se c’è un progetto di trasformazione) in realtà, e in una realtà di primo piano. Trascurarla sarebbe pregiudiziale e comporterebbe la chiusura di una direttrice di sviluppo per il movimento, quindi un danno per la causa. Non sarà allora superfluo far presente che alcune persone, dopo il nostro post, ci hanno scritto per dirci che non sono vegan – anche se vorrebbero diventarlo – ma rifiutano la discriminazione sulla base della specie di appartenenza. Queste persone sono un esempio degli “alleati per la liberazione animale” di cui parliamo. Ma allora perché parte del movimento le rifiuta (o le accetta solo a condizione che diventino diverse da come sono e quindi, in fondo, le rifiuta comunque)?

Dallo stile di vita al sistema di produzione

Ci sembra che il motivo stia nell’adesione oggettiva (che va cioè al di là delle intenzioni soggettive) di quella parte di movimento all’antispecismo morale-metafisico e al suo idealismo, con il suo corollario di iper-focalizzazione sulla dimensione individuale dell’esistenza, sottovalutazione dei fattori sociali che condizionano il vissuto e l’agire personale e incomprensione delle dinamiche reali del cambiamento sociale.

L’enfasi posta da alcuni sull’antispecismo come approccio che sarebbe più radicale e più completo del veganismo (che è uno dei motivi per cui preferiscono definirsi antispecisti piuttosto che vegani) non ha reso quest’ultimo meno essenziale, anzi: ha semplicemente aggiunto altro ad esso, gli ha costruito attorno. Qui l’antispecismo non ha comportato nessun cambiamento sostanziale rispetto al precedente (“precedente” anche in senso cronologico, visto che storicamente nasce prima) veganismo. Per questa parte del movimento di liberazione animale, insomma, il veganismo resta la realizzazione pratica dell’antispecismo da parte dell’individuo. Per alcuni, il veganismo individuale è addirittura lo strumento per la realizzazione sociale dell’antispecismo. Soffermarci sulle dinamiche sociali del cambiamento, allora, può farci comprendere perché questa iper-focalizzazione sul veganismo, questo, per così dire, “veganocentrismo”, sia sbagliato.

Il veganismo non può realizzare la liberazione animale perché è uno stile di vita, non un modo di produzione. Non volendo sfruttare gli animali non umani, un’ipotetica società vegana produrrebbe diversamente dall’attuale (per es. non ci sarebbe più un’industria zootecnica), ma è praticamente impossibile che questa società si affermi senza cambiare il modo attuale della produzione – cioè la proprietà privata dei mezzi produttivi e i rapporti di produzione in generale. Come abbiamo scritto altrove, la socializzazione dei mezzi produttivi è la condizione di possibilità della liberazione animale (cioè non la sua attuazione, ma ciò che rende possibile la sua attuazione); e anche del veganismo che, certo, alla liberazione animale è legato. Ma è legato a livello sociale, non individuale. Per quanto possa adottare uno stile di vita vegano, infatti, il singolo individuo non può determinare un vero e proprio cambiamento sociale (può al massimo convincere qualche persona a diventare vegana) perché la società cambia quando cambia la sua base materiale. Ovvero quando non abbiamo più necessità di sfruttare gli altri animali per vivere (condizione che ancora oggi non si dà, anche se si dà in potenza e di più rispetto a prima almeno in certe aree del mondo e in certi contesti economico-culturali); e quando possiamo volgere la produzione dall’interesse di pochi a quello di tutti. Cioè quando, venuti in possesso dei mezzi produttivi, possiamo autodeterminarci e dunque anche decidere cosa produrre e cosa non produrre, liberi dai condizionamenti del capitale (compreso quello zootecnico) e dai bisogni falsi e indotti – basti pensare all’importanza della pubblicità, che Henry Ford definiva l’ “anima del commercio” – che esso suscita.

Se ci trovassimo in una società comunista e in cui la liberazione animale fosse compiuta, essere vegani tenderebbe a coincidere con essere antispecisti e con volere (il mantenimento della) liberazione animale. Verrebbero infatti a mancare molte delle cause esterne e interne – come la necessità materiale, l’egoismo, l’indifferenza e la crudeltà artificiali – per le quali il comportamento individuale oggi non riesce a adeguarsi al convincimento ideale. Perciò sarebbe meno possibile, anche dal punto di vista logico, sfruttare gli altri animali senza discriminarli (e dunque essere antispecisti pur non essendo vegani), e sarebbe molto più legittimo sospettare una semplice, cattiva coscienza. Inoltre, dato che nella società comunista e della liberazione animale attuata non esisterebbe uno sfruttamento sistematico degli altri animali, il loro sfruttamento sarebbe effettivamente causato dal singolo che li sfrutta; un po’ come gli antispecisti morali pensano – a torto – che accada oggi quando si acquista un prodotto animale o derivato. Ma oggi la possibilità della liberazione animale non coincide con l’allargamento del numero di persone vegane. Coincide piuttosto con l’allargamento dell’adesione all’antispecismo, ovvero con l’ammissione della realtà dell’ingiustizia dello sfruttamento animale, con il superamento del pregiudizio e dell’ideologia specista da parte di sempre più persone e con l’assunzione del compito di rivoluzionare il rapporto con il resto dell’animalità in senso ugualitario e solidaristico. O almeno con la rinuncia a resistere al cambiamento operato da altri più energici e/o più privilegiati. Questo allargamento però non sarà mai consistente se non creeremo le condizioni materiali della sua diffusione e quindi, come abbiamo detto, se non realizzeremo il socialismo. Questo passaggio logico manca a chi pensa di doversi concentrare direttamente, già oggi e in maniera indiscriminata rispetto al target sociale, sulla diffusione della filosofia, dei valori e degli ideali del veganismo e dell’antispecismo. Certo, come dicono gli antispecisti che non hanno condiviso la tesi espressa nel nostro post, dovremmo interessarci a quello che le persone fanno e non solo a quello che pensano o che dicono di pensare. Ma il fare più importante non è il cambiamento del proprio stile di vita; piuttosto, è la lotta per il cambiamento della società affinché renda sistematicamente possibile cambiare stile di vita. Non più pochi privilegiati e/o mossi da grandi ideali, da profonda compassione e da ferrea volontà; ma tanti imperfetti, fallibili, consapevoli dei loro limiti e desiderosi di superarli. Tanti consapevoli pure di non essere gli unici né i principali responsabili dei loro limiti, tanti consapevoli che quei limiti sono socialmente delimitati e che il compito di superarli non può ricadere unicamente sulle loro spalle (neanche se vengono aiutati dagli attivisti, come nella retorica della “decostruzione” di sé); bensì è un compito collettivo e consiste principalmente nella trasformazione del modo di produzione sociale. Ciò che davvero dovrebbe indicare una contraddizione fra il dire e il fare dell’antispecista non è l’adesione al veganismo, non sono il consumo, la testimonianza e l’impegno individuale all’auto-miglioramento; ma la mancata adesione a quel compito. E tuttavia non si tratta di concentrarsi sulle contraddizioni individuali, vere o presunte che siano. Oggi la maggior parte degli antispecisti non assume il compito della socializzazione dei mezzi produttivi come primario, e nella maggior parte dei casi non lo assume affatto. Non è un caso né semplicemente il frutto di ignoranza e cattiva volontà individuale, ma il risultato della crisi del socialismo storico e dei decenni di egemonia neo-liberal che ne è seguita e che ha ridotto l’alternativa socialista alla stregua di un sogno e di un’utopia irrealizzabile, quando è andata bene; di un incubo e di una distopia da non realizzare quando è andata male – ovvero molto più spesso. Iper-responsabilizzare i singoli antispecisti per ciò che non pensano e non fanno circa il modo di produzione capitalistico non sarebbe perciò molto diverso dall’iper-responsabilizzare chi non è vegano per ciò che fa e per il fatto che vuole continuare a farlo. Se un cambiamento verrà, verrà dal fatto che, al di là delle nostre azioni e delle nostre intenzioni, le contraddizioni sociali – in ultima istanza materiali – scoppieranno, e le forze produttive si riorganizzeranno in nuovi modi di produzione e in nuove relazioni in generale. Le possibilità di orientare questo cambiamento sono minime, come l’orizzonte politico che resta aperto davanti a noi. Tutto ciò che possiamo dire è che restringerlo escludendo dalla lotta gli alleati della liberazione animale, accettandoli formalmente ma escludendoli e/o marginalizzandoli sostanzialmente perché non vegani, ci sembra poco saggio. A giudicare dalla situazione attuale, forse non è così poco da dire.

Dario Manni – Gruppo di Antispecismo Politico

Gruppo di Antispecismo Politico
Gruppo di Antispecismo Politico è un collettivo ecosocialista antispecista con un approccio multidisciplinare, attivo nello studio e nella ricerca sui temi della giustizia animale e sociale. Ci proponiamo, fra le altre cose, di indagare e denunciare l’influenza del neoliberalismo sul mondo della lotta per i diritti e la liberazione animale e su quello dei movimenti sociali in generale.

3 Commenti

  1. Va espresso meglio: essere vegani è essere specisti.
    Ecco perché: lo specismo è creare discriminazione tra specie biologiche differenti.
    Tutte le specie esistenti possono esistere grazie alla rete alimentare, senza la rete ogni specie smetterebbe di esistere.
    Se l’essere umano decide di uscire dalla rete alimentare per motivi etici, egli sta creando una distinzione ontologica tra una specie che deve vivere senza la rete alimentare per motivi etici (l’uomo) e altre specie che invece possono e devono.
    Questo è specismo.

  2. Therefore, it is possible to be anti-rasist, but avoid contact with people of color in your ‘personal life’. One can be against misogyny but have a dominant relationship with one’s wife in ‘individual life’. Can …!!!

    • Ciao! I tuoi esempi si basano, secondo noi, su un espediente retorico di tipo sofistico, perché assumono ciò che invece dovresti dimostrare: ovvero che sfruttiamo perché discriminiamo. È per questo che fai l’esempio di chi evita le persone di colore IN GENERALE, e non ALCUNE SPECIFICHE persone di colore. Perché se ammettessi che possiamo evitare alcune specifiche persone di colore non perché hanno un colore di pelle diverso dal nostro, ma per altri motivi (per esempio perché ci imbattiamo in una gang armata composta esclusivamente da persone di colore e cerchiamo di evitarla in quanto temiamo possa derubarci, non in quanto è composta da persone di colore), dovresti anche ammettere che il diverso trattamento non coincide sempre – né è sempre causato – dalla diversa considerazione.
      L’idea che non possiamo compiere il “male”/danneggiare il prossimo se non siamo convinti che se lo meriti è in effetti puramente metafisica. In natura – e noi siamo indubbiamente parte della natura – non funziona così; e più ci avviciniamo allo stato di natura (e il capitalismo ci avvicina molto a tale stato) meno forti sono i vincoli morali e gli scrupoli verso il prossimo. In questo contesto, discriminare può facilitare lo sfruttamento, talvolta può causarlo, ma non lo causa necessariamente; anzi di solito i pregiudizi sono creati ad hoc dalla classe dominante, che così rende più accettabile lo sfruttamento dei gruppi discriminati. Come nel caso del razzismo, che è uno strumento di controllo usato dalla classe dominante per dividere e meglio dominare i subalterni.

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