Diana Wynne Jones (Londra, 16 agosto 1934 – Bristol, 26 marzo 2011) è stata l’autrice che più ha influenzato la produzione di romanzi fantasy e per ragazzi. Da J.K. Rowling, passando da Neil Gaiman e affacciandoci verso Susanna Clarke, la sua penna continua a vivere, saccheggiata dalle firme più rinomate e che hanno nutrito l’immaginario di generazioni. Purtroppo il suo nome in Italia non è tra i più famosi: Diana W. Jones è infatti qui conosciuta principalmente per la Trilogia di Howl (composta da Il castello errante di Howl, Il castello in aria e La casa per Ognidove) e solo grazie al film d’animazione targato Studio Ghibli, che nel 2004 Hayao Miyazaki ha tratto dal primo romanzo dell’autrice.
Il Castello errante di Howl ha un linguaggio da fiaba, con riferimenti continui alla Bella e la Bestia: siamo nel regno di Ingary e qui, oltre alla magia, ci sono un castello, un essere mostruoso, una donzella persa e costretta a una convivenza forzata, personaggi secondari che fanno da spalla, una strega cattiva..
E come nella Bella e la Bestia (e in tutta la tradizione fiabesca), ognuno di questi dettagli è un simbolo che va decodificato per appropriarsi di tutto il messaggio portato avanti dalla Jones.
Sin dagli albori dell’epica e dei romanzi in versi, i castelli (conquistati, distrutti, isolati, roccaforti impetrabili o privi di difese..) vogliono personificare il carattere del loro detentore. Howl vive in un edificio che ha la qualifica di essere “errante” e questo già la dice lunga sulla sua identità. Rispetto al film, il protagonista risulta molto più spigoloso e acerbo: un Dorian Gray vanitoso ed egocentrico, amante della bellezza e delle futilità, ma dall’immagine sempre offuscata da una certa malinconia, un alone di insoddisfazione e di non appagamento. È invischiato in una perpetua ricerca (ma di cosa?), attaccato a un destino di cui si compiace ma che in realtà odia con tutto sé stesso.
Howl è immaturo e brusco e la maledizione della bestia (in cui si tramuta) ha qui una funzione di svelamento: solo un rendere esplicito ciò che già c’era. Il destino del mago non è quindi un contrappasso, ma rientra in un gioco di metafore con cui Diana W. Jones costruisce il primo significato del suo romanzo: gli adulti devono smetterla di fingersi ciò che in realtà non sono per paura di ciò che potrebbero diventare. Tutti dicono ad Howl che è un mostro e lui si trasforma in una macchina da guerra (che repelle la guerra), così come accade alla coprotagonista Sophie. La ragazza è la primogenita di un cappellaio e non ha mai preso una scelta per se stessa, convinta di essere destinata a una vita monotona. Agisce passivamente, si isola nella sua bottega e lascia che intanto il mondo fuori fluisca. Quando la Strega delle Lande la trasforma in una anziana signora, gelosa per il suo inaspettato incontro con Howl il rubacuori, la diciottenne non ha alcuna reazione estrema: quelle rughe, i capelli bianchi, la schiena scricchiolante non la spaventano affatto ma anzi, le danno una scusa per continuare la sua vita nel silenzio e nell’ombra. Paradossalmente però solo da vecchia Sophie riuscirà a pensare e a decidere per la sua incolumità e per suo tornaconto personale: comoda in questa nuova versione di sé, vive l’avventura più grande della sua vita e, un passo alla volta, trova il coraggio di uscire dalla sua comfort zone. Si libera di Testa di Rapa, impone i suoi spazi (che da giovane non aveva mai avuto), e si impone ad Howl, a Calsifer e alla Strega Saliman. Proprio quando si comporta con decisione e mostra un coraggio che non sapeva di avere Sophie ringiovanisce, quando invece lascia che la paura e le insicurezze la vincano ricomincia a invecchiare: in tutto il romanzo la Jones cerca quindi di far combaciare il dentro e il fuori dei suoi personaggi, costruendo un mondo senza maschere e in cui non esistono vere maledizioni (ognuno diventa ciò che crede di essere), ma solo verità urlate. Non per caso Howl si mostra umano quando Sophie lo tratta come tale e la Strega delle Lande appare invece come il contrario di Sophie (una donna anziana che si comporta da giovane e che diventerà un’innocua vecchietta).
Continuando il discorso della personificazione, Diana W. Jones esplica nel castello tutta l’interiorità di Howl.
Michael Fisher, il giovane apprendista del mago, simboleggia il suo lato infantile (che, timoroso di mostrarsi per quel che è, si traveste da adulto quando il Castello si ferma); Calsifer è il cuore del mago; gli interni e l’arredamento sono confusionari, disordinati, sporchi e impolverati e sono l’anima disorganizzata di Howl. Non a caso Sophie si presenta come la nuova donna delle pulizie: pulirà, rassetterà e metterà ordine nella vita del mago e, solo quando imparerà a conoscere e riuscirà ad accogliere tutti i suoi lati, i due protagonisti potranno sperare in un lieto fine.
Sullo sfondo del romanzo c’è una guerra incomprensibile, confusionaria e mal delineata. La Jones ne individua la causa nella scomparsa di un principe, ma il messaggio è chiaro: la violenza è brutale e inutile e gli adulti che la perpetuano si trasformano in bestie non pensanti. Howl, grazie al suo castello errante e animato da un curioso atteggiamento adolescenziale, viaggia nello spazio e nel tempo e ha così la possibilità di scappare, ma anche di vedere e conoscere. Ma gli uomini sono sempre tutti uguali e lui, assetato di bellezza, compra vestiti e orpelli, continuando a camuffare la sua immagine, malfidato e terrorizzato dal lasciarsi andare.
Alessia Sicuro