Ogni anno le graduatorie delle università mondiali pescano il primo degli atenei italiani ben oltre la centesima posizione. Qualche eccellenza ci viene riconosciuta, ma nel complesso le cose non vanno troppo bene. La partita, però, è ancora aperta…

Di università, fuori dalle università, in Italia si parla poco. Nel 2018 l’unico grande dibattito è ruotato attorno alla proposta di abolire le tasse universitarie di Liberi e Uguali. Eppure c’è un’eccezione: le graduatorie mondiali degli atenei. Se ogni anno i maggiori mezzi di informazione ci ripetono per l’ennesima volta che le università italiane affondano sotto i colpi dei college inglesi e americani un motivo c’è: ci piace parlarne. Non ci piace però approfondire questi dati, altrimenti scopriremmo che i tanti problemi reali o percepiti della nostra istruzione superiore si riducono nei fatti a una sola grande questione: lo scarso appeal internazionale delle università italiane.

Il dominio anglosassone

Partendo dall’alto, il numero di università inglesi o americane che occupano i primi dieci posti delle classifiche più autorevoli varia da nove a dieci. Eppure, proprio nei Paesi anglosassoni che dominano i ranking il dibattito attorno alle metodologie adoperate da chi li produce è accesissimo. Il motivo è chiaro a tutti: il prestigio dei singoli atenei. Nel 2012, addirittura, Andrew Marszal del Telegraph dedicò un lungo articolo ai diversi parametri che portano alla composizione delle classifiche per fare chiarezza su una questione imprescindibile: perché in una classifica Oxford supera Cambridge e in un’altra no?

Università in Italia, le due facce della medaglia

Tornando a noi, osserviamo più da vicino la più recente classifica degli atenei stilata dall’azienda britannica Quacquarelli Symonds (QS). Per trovare la migliore università italiana dobbiamo lasciare i simpatici scontri british per il trono (accademico, s’intende) d’Inghilterra e scendere fino al 156° posto, occupato dal Politecnico di Milano. L’ateneo meneghino è stato presentato come modello virtuoso dal Sole 24 Ore, eppure resta ben lontano dalle zone alte del ranking QS.

Chi ha ragione? La risposta è entrambi. Il Sole, infatti, si concentra non tanto sulla graduatoria generale ma sulle più indicative classifiche per facoltà. Per quanto riguarda Ingegneria, Architettura e Design, infatti, il Politecnico è nella top 20 mondiale. Un dato ottimo, che non rappresenta neanche un caso isolato: la Sapienza di Roma è al primo posto al mondo in Scienze dell’Antichità.

Un’università poco… universale

Se è falso che la situazione è critica, è vero però che per alcuni aspetti l’università italiana arranca. Ed ecco che, osservando il nostro valore in rapporto ai singoli parametri, emerge in modo impietoso il problema di cui sopra: le università italiane piacciono solo agli italiani. La reputazione accademica e il numero di citazioni nei papers sembrano presentare uno scenario tutto sommato positivo, che testimonia il prestigio dei nostri studiosi nonostante il giudizio negativo di molti accademici sullo stato della ricerca in Italia.

Il crollo invece è determinato da due parametri minori che vedono precipitare le università dello Stivale – tutte, senza eccezioni – oltre il trecentesimo posto: la capacità di attirare docenti e studenti stranieri. Nel Medioevo i cosiddetti clerici vagantes – professori e studenti di tutta Europa che giravano di università in università – facevano la fila per venire da noi a insegnare e studiare. Oggi, invece, non siamo abbastanza pop da attirare professorsstudents dall’estero.

Ma come possiamo risolvere il problema?

Non siamo in grado di contrastare economicamente i college-azienda americani dove entrano studenti di tutto il mondo ed escono lavoratori specializzati con un contratto in mano. Le risorse a disposizione di Harvard o Yale non sono minimamente paragonabili a quelle di cui dispongono le università private italiane, figurarsi le pubbliche. Anzi, secondo una ricerca della European University Association (EUA) i fondi statali sono diminuiti ulteriormente nel periodo 2010-2016.

L’Unione fa la forza

Insomma, per cause di forza maggiore non avremo mai un’università all’americana, un college che si occupa della vita degli studenti in ogni suo aspetto, ma non per questo siamo spacciati. Per quanto riguarda diverse facoltà, come detto, siamo i migliori al mondo. Per sfruttare al meglio queste eccellenze culturali e avere un’università in grado di farsi brand internazionale bisogna pensare in grande. Guardare non allo stato, ma all’Europa. Grazie al programma di finanziamento Horizon 2020 per la Ricerca e per l’Innovazione creato dalla Commissione europea, le università italiane hanno già raccolto dal 2014 oltre 740 milioni di euro. Unire le forze con gli altri Paesi UE senza rinunciare alla propria identità: non sarà facile, ma non abbiamo altra scelta.

Davide Saracino

2 Commenti

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