Vivian Maier Inedita a Torino: tra street photography e fotografia umanista
Vivian maier, New York, 1954. Vivian Maier/Maloof Collection, Courtesy Howard Greenberg Gallery, New York. Fonte: https://www.doppiozero.com/materiali/clic/vivian-maier-l-arte-di-scomparire

Dopo una prima tappa al Musée du Luxembourg di Parigi (15 settembre 2021 – 16 gennaio 2022), lo scorso 9 febbraio è arrivata ai Musei Reali di Torino Vivian Maier Inedita, una mostra di oltre 250 scatti – di cui alcuni inediti – di Vivian Maier, una delle maggiori esponenti della fotografia del XX secolo, a cavallo tra street photography e fotografia umanista. La mostra, che annovera anche alcuni oggetti personali dell’artista, resterà esposta nelle Sale Chiablese fino al 26 giugno 2022. L’evento è stato curato da Anne Morin e organizzato da diChroma photography in collaborazione con i Musei Reali e la società Ares di Torino, la John Maloof Collection di Chicago e la Howard Greenberg Gallery di New York; è inoltre sostenuto da Women In Motion, un programma di Kering per valorizzare il contributo femminile ad arte e cultura.

Vivian Maier Inedita a Torino: tra street photography e fotografia umanista
Un autoritratto di Vivian Maier. Fonte: https://www.doppiozero.com/materiali/clic/vivian-maier-l-arte-di-scomparire

Vivian Maier nacque a New York nel 1926 e trascorse la sua intera vita tra la città natale, la Francia (dove visse con la madre tra il 1932 e il 1933) e Chicago. Sin dall’adolescenza, lavorò come bambinaia per famiglie benestanti. Risale al 16 aprile 1951 l’acquisto della sua prima Rolleiflex; da allora, Maier ha documentato la quotidianità delle strade americane che ha percorso, non mancando di seminare tracce della sua presenza dietro l’obiettivo. Nel 1959 intraprese, da sola, un viaggio di sei mesi che la portò in Canada, in Egitto, nello Yemen, in Thailandia, in Italia e in Francia, per l’ultima volta: non disse mai a nessuno dove fosse stata, compresa la famiglia Gensburg, per la quale lavorava e che fu costretta a trovare una sostituta per quel periodo. Quando Vivian Maier morì, il 21 aprile 2009, pressoché nessuno era a conoscenza della sua produzione fotografica. Due anni prima, il giovane agente immobiliare John Maloof, alla ricerca di illustrazioni per un libro di storia locale, aveva acquistato parte dei beni di una persona sconosciuta, venduti all’asta perché l’affitto del box in cui erano mantenuti non veniva più corrisposto. Fu proprio nell’aprile del 2009 che Maloof scoprì su una busta di fotografie, pellicole e negativi il nome di Maier: una rapida ricerca su internet lo condusse al suo necrologio, scritto pochi giorni prima dai fratelli Gensburg, che decise di incontrare. Da allora è cominciato il lavoro di ricostruzione dell’opera dell’artista, culminato in Finding Vivian Maier, la prima mostra organizzata al Chicago Cultural Center nel gennaio 2011, seguita dall’omonimo documentario del 2013.

Vivian Maier Inedita a Torino: tra street photography e fotografia umanista
Fonte: https://www.museireali.beniculturali.it/events/vivian-maier-inedita/

Tra autoritratti, dettagli di gesti e oggetti, scene ordinarie, ritratti e video la mostra offre una panoramica ampia della produzione dell’artista, ripercorrendone le tappe e l’evoluzione. Come nota Silvia Mazzucchelli in Vivian Maier: l’arte di scomparire (Doppiozero, 6 gennaio 2016), l’artista sembra essersi approcciata alle scene fotografate con discrezione, quasi a non volerle scomporre, lasciandole intatte nella loro vivacità. Delle centinaia di foto scattate, ne sviluppò solo poche e non sentì mai la necessità di uscire allo scoperto. «Ho scattato così tante foto per riuscire a trovare il mio posto nel mondo» diceva, approfittando delle libertà che il lavoro da bambinaia le concedeva. Una ricerca tutta privata, la sua, che raccoglie immagini quotidiane dell’America del dopoguerra. Il suo tentativo di “trovare un posto nel mondo” sembra esercitarsi nell’atto di collezionare momenti, preservandoli tuttavia dall’immobilità a cui li avrebbe consegnati una loro eventuale condivisione. Vivian Maier osservava mettendosi da parte, facendo dell’atto dello scattare, forse, un promemoria concreto della sua presenza e lasciando, nel frattempo, la parola ai suoi soggetti. Anche le sue autorappresentazioni sono spesso allusive: il profilo della sua ombra, un riflesso, l’immagine in un’immagine; tutti procedimenti che affermano la sua presenza in un certo luogo e momento. Se la sua cultura visiva è quella della street photography americana, la rappresentazione dei soggetti sembra rifarsi al linguaggio della fotografia umanista: delle persone vengono colte emozioni, attitudini personali, legami. La vivacità delle immagini di Vivian Maier tocca un punto di svolta alla metà degli anni Sessanta, con l’esplorazione del linguaggio cinematografico: le riprese frontali con la sua cinepresa Super 8 documentano la ricerca dell’immagine fotografica. Non appena la ripresa toccava il soggetto giusto, Maier sostituiva la cinepresa con la sua Rolleiflex per scattare; il video restava una testimonianza del suo esercizio di osservazione, senza troppi artifici: una traccia delicata del suo modo di stare al mondo.

Siria Moschella

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