Sono passati quasi quattro mesi dalla sera in cui Luigi Di Maio e altri parlamentari del Movimento 5 Stelle festeggiavano, dal balcone di Palazzo Chigi, “l’abolizione della povertà“. Quattro mesi dopo il Reddito di cittadinanza – la misura di integrazione al lavoro chiamata a realizzare la promessa fatta in quella sera di fine settembre – sembra essere finalmente pronto a vedere la luce dopo l’approvazione del decreto da parte del Consiglio dei Ministri il 17 gennaio. Ma quali insidie nasconde questo provvedimento?
È un vero e proprio “Reddito di Cittadinanza”?
La definizione che la Treccani dà di Reddito di cittadinanza è: “un ammontare di reddito pagato dal settore pubblico a ogni adulto residente (o stabilmente membro di una specifica collettività), a prescindere dal fatto che sia un individuo povero o ricco, che viva da solo o con altri, che voglia lavorare o meno, ed è pertanto definito uno strumento universalistico“. E proprio sulla natura universalistica della misura va a infrangersi la realtà dei fatti: quello concepito da Di Maio non è che una variante di un sussidio di disoccupazione, che anzi risulta meno estesa di quest’ultimo stando agli stretti criteri che bisognerà rispettare per ottenere il beneficio.
Per avere accesso al Reddito di cittadinanza bisognerà infatti: essere residenti da almeno 10 anni in Italia (gli ultimi due continuativi); avere cittadinanza italiana/europea/permesso di soggiorno di lungo periodo; ISEE inferiore a 9360€; patrimonio immobiliare inferiore a 30.000€; patrimonio finanziario inferiore a 6000€ (soglia che sale in base al numero di componenti del nucleo familiare e in caso di presenza di disabili). Ne è inoltre escluso chi possiede: automobili di cilindrata superiore ai 1600 cc, moto superiori ai 250cc, automobili immatricolate negli ultimi 6 mesi e imbarcazioni di qualsiasi tipo. Un percorso a ostacoli che abbassa la platea dei beneficiari a circa 1 milione e mezzo di famiglie, pari a 4 milioni e mezzo di persone: non certo “ogni adulto residente”.
L’affinità con un sussidio di disoccupazione emerge anche dal confronto con altre due misure di contrasto alla povertà oggi in vigore: la NASpI e il ReI. Il Reddito di cittadinanza risulta infatti incompatibile con il Reddito di inclusione varato dal governo Gentiloni, che comunque rimarrà a disposizione di chi ne ha fatto richiesta entro marzo e decide di rinunciare invece al RdC. È tecnicamente possibile invece sommare il Reddito di cittadinanza con l’assegno di disoccupazione; ma la riscossione di quest’ultimo fa reddito, ed è quindi inserita ai fini del calcolo ISEE. Difficilmente, quindi, chi usufruisce della NASpI riuscirà a rispettare i requisiti necessari per il RdC. Ha ragione quindi Di Maio quando parla di “fondazione di un nuovo welfare state italiano”: il punto sta nel capire quanto possa essere inclusivo questo nuovo modello.
L’integrazione al lavoro nel resto d’Europa
E Di Maio ha ragione anche quando afferma che modelli simili al Reddito di cittadinanza nell’ambito della lotta alla povertà sono diffusi in tutta Europa. In Francia ad esempio, Pôle d’emploi – l’equivalente del nostro centro per l’impiego, il quale però non fornisce alcun “reddito minimo” – prevede la figura del “consigliere personale” sulla quale Di Maio ha disegnato il “navigator” che farà da tutor a coloro che cercano lavoro attraverso il percorso del RdC. E dalla Francia è parzialmente ispirata anche l’esclusione dalle liste a seguito di un numero di offerte di lavoro rifiutate – 2 in Francia, 3 in Italia – e il meccanismo delle chiamate in base alla distanza dalla residenza: in Francia la seconda chiamata può essere entro 30 km mentre dopo un anno può essere proposto qualsiasi impiego “ragionevole”, in Italia le offerte possono arrivare da massimo 100 km nei primi 6 mesi, massimo 250 km tra i 6 e i 12 mesi e da tutta Italia dopo i 12 mesi.
Ma il modello al quale lo stesso premier Conte ha riconosciuto la “paternità” è quello dell’Hartz IV tedesco. Questo provvedimento – ben distinto dall'”Arbeitslosengeld I” che è il corrispettivo del nostro sussidio di disoccupazione – consiste in un reddito minimo da circa 416€ più maggiorazioni per coppie e figli a carico. In cambio del reddito, il beneficiario deve dimostrare di essere alla ricerca di lavoro, e accettare qualsiasi offerta fornitagli dal Jobcenter (il centro per l’impiego) pena la decurtazione del beneficio o l’esclusione dallo stesso. Ma questa riforma è ormai giudicata in maniera negativa dalla quasi totalità dei partiti tedeschi, che riconoscono come negli ultimi anni questa abbia contribuito a un boom del precariato più che alla lotta alla povertà. Inoltre, le vite dei beneficiari dell’Hartz IV diventano sempre più dipendenti dal ruolo dei Jobcenter, i quali possono presentare anche lavori del tutto inadeguati rispetto alla preparazione professionale dell’individuo, che è però costretto ad accettare.
E proprio quello dei centri per l’impiego resta un nodo fondamentale da risolvere per la corretta attuazione del Reddito di cittadinanza: l’Italia è infatti, secondo dati aggiornati al 2015, tra le ultime nazioni in Europa per spesa pubblica in servizi per l’impiego, avendovi destinato solo lo 0,04% del PIL. Germania e Francia, che come abbiamo visto hanno una complessa macchina che si occupa di integrazione al lavoro, dedicano a questo scopo rispettivamente lo 0,36% e lo 0,24% del PIL; risultando, tra i paesi europei, dietro solo alla Danimarca che vi destina lo 0,51% del PIL.
Per la riforma dei centri per l’impiego nella legge di bilancio è stato stanziato un miliardo a testa per il 2019 e per il 2020, e Di Maio ha annunciato l’assunzione di 4000 nuovi dipendenti da sommarsi agli 8000 attualmente in servizio; una cifra irrisoria rispetto agli 80.000 addetti impegnati in Germania o ai 45.000 in Francia. Basteranno queste misure a colmare il gap?
Perché Di Maio non abolirà la povertà
I dubbi che restano su questa misura sono, quindi, tantissimi. Innanzitutto appare profondamente illiberale la scelta di permettere un prelievo massimo di 100€/mese ai beneficiari, che si inserisce sui binari dell’evitare quelle che lo stesso Di Maio definì qualche tempo fa “spese immorali”. Ma può lo Stato influenzare (quando non dirigere) le scelte sulla gestione economica del patrimonio dei cittadini? Può lo Stato agire come un padre che proibisce al bambino di spendere i soldi come vuole perché “non abbastanza maturo”?
Inoltre, basterà una riforma dei centri per l’impiego, per quanto strutturale essa possa essere, a trovare tutti i posti di lavoro di cui ci sarà bisogno (3 offerte per 4,5 milioni di persone)? Se sì, forse sarebbe stato meglio investire i fondi del Reddito di cittadinanza in un piano straordinario di investimenti e taglio tasse per la creazione di posti di lavoro, piuttosto che costruire un imponente apparato burocratico che si occuperà di ricerca del lavoro e corsi di formazione professionale (con quale efficienza non è dato saperlo) e che rischia di rivelarsi solo un imponente spreco di soldi pubblici.
L’impressione è che da questo provvedimento venga fuori un’idea di economia piuttosto limitata e semplicistica, che vede nell’aumento dei consumi una sorta di El Dorado dalla quale far ripartire la crescita del Paese e sconfiggere la povertà. Ignorando però che questa spesa viene finanziata completamente a deficit, con il rischio che aleggia di congiunture piuttosto negative (la recessione tecnica prospettata da Bankitalia) e la spada di Damocle delle enormi clausole di salvaguardia da disinnescare per il prossimo anno.
Solo una politica del lavoro, lontana sia dall’austerity che dall’assistenzialismo fine a se stesso, può riuscire davvero ad abolire la povertà.
Con buona pace di Di Maio, dei balconi e delle promesse – volatili – di inizio autunno.
Simone Martuscelli