Qualcuno afferma che «il livello di educazione, di padronanza dei gesti e delle parole, di rispetto delle regole è direttamente proporzionale al ceto sociale di provenienza» e scatta, immediato, l’allarme disuguaglianza sociale.

Michele Serra, ossia il qualcuno in questione, non ha lasciato adito a sottintesi e in tal modo ha indirettamente aperto un dibattito mai realmente risolto, ma ipocritamente sopito: se l’uguaglianza sociale millantata, intesa quale rapporto asimmetrico tra opportunità e ceto sociale, esista o sia solo uno strumento di imbonimento.

L’Italia odierna – ci racconta lo strato più superficiale dei fatti – concede occasioni a tutti, senza distinzione di reddito, sesso, etnia eccetera. Il primo e forse più importante strumento di “democrazia diretta” è in tal senso l’istruzione pubblica: a qualsiasi bambino, adolescente, giovane adulto è data l’opportunità di formarsi a più livelli e concorrere attraverso il titolo di studio alla mobilità sociale – concetto, quest’ultimo, che pare sufficiente ad abbattere la disuguaglianza sociale.

Ma la disuguaglianza sociale è un’idra, non un semplice serpente

Chiamare in causa l’istruzione pubblica in questo contesto significa discutere principalmente di istruzione secondaria superiore e di università, ambedue identificate come traghettatori sociali.

Stando alle più recenti statistiche del MIUR, in Italia il tasso di iscrizione ai licei è in crescita e supera quello di iscrizione agli istituti tecnici e professionali: i tredicenni, insomma, sembrano preferire i percorsi che sulla carta sono propedeutici all’università a quelli propedeutici a un più rapido ingresso nel mondo del lavoro – se tale preferenza vada correlata anche alla scarsa, e spesso poco appetibile, offerta lavorativa italiana, il MIUR non lo specifica.

Questi dati, tuttavia, vanno necessariamente messi in relazione ad altri dati statistici recenti contenuti nel rapporto annuale dell’ISTAT, che nel paragrafo “Gruppi sociali ed ereditarietà nei livelli di istruzione” pone all’attenzione due fattori importanti: il ceto sociale dei genitori influisce sull’istruzione dei figli; è stato registrato un aumento generalizzato del livello di istruzione tra una generazione e l’altra. I due elementi sono così interpretati:

«La capacità attuale del sistema di istruzione di promuovere l’eguaglianza delle opportunità appare, quindi, a tutt’oggi sostanzialmente limitata all’obbligo scolastico e, anche in quest’ambito, gli abbandoni sono fortemente correlati col titolo di studio conseguito dai genitori. Il reddito familiare e, soprattutto, il livello di istruzione dei genitori condizionano in misura determinante le scelte negli indirizzi di istruzione secondaria, quella di iscrizione all’università, l’indirizzo scelto e anche la possibilità di completare il percorso di studi.»

Rapporto annuale 2017 – p. 225

Sostanzialmente, dati alla mano, la disuguaglianza sociale esiste e sembra essere ben radicata nella nostra società, al punto tale che le aspettative delle giovani generazioni appaiono condizionate dai traguardi professionali e accademici raggiunti dai propri genitori.
Va da sé che non siamo in presenza di una legge universale – le eccezioni esistono, come d’altronde sono sempre esistite –, ma in percentuale il figlio di genitori con licenza media ha meno probabilità di laurearsi rispetto al figlio di genitori con licenza superiore o laurea. Questo sia a causa delle risorse economiche che a causa della formazione culturale della famiglia di provenienza.

Ancora in tema di quella qui identificata come disuguaglianza sociale, l’ISTAT accenna anche al fattore “ereditarietà professionale”, che investe soprattutto le libere professioni: i figli di laureati in materie giuridiche, ad esempio, hanno più probabilità di conseguire un titolo di studio nella medesima area e indirizzarsi conseguentemente verso la sfera professionale del genitore.

Un fattore problematico, questo, che ha motivo d’essere analizzato in una società sempre più stratificata su base reddituale come la nostra, dove il lasciapassare per professioni retribuite in maniera dignitosa e soddisfacente è nella gran parte dei casi il titolo (o i titoli) di studio di livello superiore – dal diploma liceale alle scuole di specializzazione post-laurea.

La disuguaglianza sociale nell’era delle (apparenti) pari opportunità

La conclusione cui si giunge è quantomai scomoda: malgrado a tutti sia virtualmente concesso avere ambizioni di ogni tipo, nella realtà dei fatti queste ambizioni sono stroncate o condizionate dal ceto sociale di provenienza.

I motivi sono i più disparati, da quelli meramente economici (l’università, anche se pubblica, ha un costo elevato: tasse e materiale didattico non sono alla portata di tutte le tasche) a quelli identificabili come culturali (non è detto che dei genitori con un basso titolo di studio comprendano l’importanza dell’istruzione, è probabile che ritengano prioritario l’inserimento nel mondo del lavoro con conseguente stabilità economica).

Motivi che si scontrano con l’altra faccia della medaglia, fatta di classe dirigente e ceto medio-alto, dove probabilmente non è neanche contemplata l’ipotesi che un giovane possa non conseguire quantomeno il diploma e specializzarsi in qualche modo – dal titolo universitario a corsi di specializzazione post-diploma (talvolta a pagamento).

Quando, dunque, qualcuno afferma che tanti fattori dipendono dal ceto di provenienza e sviluppa una tesi incentrata sull’esistenza del classismo, non fa altro che porre l’accento su un fenomeno sociale esistente.
Forse non piacerà, perché – ci raccontiamo – esistono le borse di studio, i sussidi, il tutti possono fare tutto, ma i fatti raccontano una realtà che è diversa e che va presa per ciò che è: negare rafforza il problema, non lo risolve.

Se la disuguaglianza sociale continua a esistere è anche a causa di chi la nega: gli errori di sistema non possono essere bypassati, devono essere corretti.

Rosa Ciglio

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