La Questione meridionale: argomento complesso di discussione e d’analisi affrontato da numerosi studiosi tra i quali Salvemini, Gioberti, Cattaneo, Dalla Chiesa, Bobbio, Saraceno, Dorsi, Villari e Gramsci. Ed è quest’ultimo a scrivere in merito al Sud d’Italia:
«È noto quale ideologia sia stata diffusa in forma capillare dai propagandisti della borghesia nelle masse del Settentrione: il Mezzogiorno è la palla al piede che impedisce i più rapidi progressi allo sviluppo civile dell’Italia; i meridionali sono biologicamente esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi, per destino naturale; se il Mezzogiorno è arretrato, la colpa non è del sistema capitalistico o di qualsivoglia altra causa storica ma della natura che ha fatto i meridionali poltroni, incapaci».
Se una parte degli storici e intellettuali ritiene ormai superata l’arretratezza del Sud d’Italia, un’altra parte la ritiene un fenomeno talmente complesso da non poterne nemmeno individuare le cause. Per i primi la questione meridionale non esiste, per i secondi esiste ma costituisce un rompicapo indecifrabile. Ogni male ha la propria soluzione. L’ammissione delle responsabilità del capitalismo nel determinare il divario tra Nord e Sud implicherebbe ammettere che tale divario non potrà mai trovare una soluzione definitiva all’interno del capitalismo stesso.
La Questione Meridionale: Storia
A. Gramsci analizza il Sud in quanto locus in cui è fallito il progetto di «Stato Liberale» di Cavour, in cui non ha attecchito il Risorgimento. Il Sud è un’unità territoriale in cui avviene una grande disgregazione sociale. Infatti il disegno unificante del Regno Piemontese non è stato solo sconfitto nelle lontane province ex borboniche, ma è stato sconfitto all’interno della stessa costruzione unitaria: dentro l’edificio dello Stato.
In Gramsci la questione meridionale è connessa alla separatezza territoriale (due nazioni). Il sottosviluppo meridionale è sorto durante – e soprattutto – dopo il processo di unificazione italiana. È stata la via peculiare con cui il debole capitalismo italiano ha potuto colmare l’enorme distacco che lo ha separato dal resto d’Europa capitalisticamente avanzata. Il partito democratico di Mazzini decide la spedizione dei Mille per scongiurare la nascita di un protettorato francese nel Meridione. Garibaldi realizza la liberazione del Meridione con mezzi rivoluzionari solo per riconsegnarlo ai Savoia e al baronato meridionale. Quando i Mille sbarcano in Sicilia, le classi sociali in lotta vi vedono ciò che vogliono: speranza.
Per i contadini poveri e per le masse urbane in lotta, l’arrivo dei garibaldini è il segnale che riaccende l’insurrezione rivoluzionaria. La borghesia settentrionale intuisce invece che l’autorità di Garibaldi e l’esercito piemontese possono garantire meglio lo status quo di quanto ormai possano fare i Borbone. Garibaldi, inizialmente, decreta l’abolizione della tassa sul macinato e la divisione rivoluzionaria delle terre. L’esercito borbonico viene sconfitto, ma a Napoli Garibaldi consegna il potere a Liborio Romano, ex ministro del governo borbonico, espressione contemporanea della camorra e degli interessi baronali, per far sì che avvenisse il pagamento del debito pubblico dei vecchi Stati pre-unitari, i cui titoli erano interamente in mano a banche straniere.
Il movimento contadino, illuso e tradito, continua nella propria dinamica di lotta e nel modo più disperato e istintivo: la guerra di brigantaggio. Ciò condusse all’eccidio contadino nelle campagne meridionali da parte dei piemontesi e delle camicie rosse. Se l’alleanza tra borghesia del Nord e latifondisti del Sud è stata la risultante politica del processo risorgimentale, l’inizio dell’arretratezza e della de-industrializzazione del Meridione ne è stata la risultante economica. Successivamente l’Italia di Giolitti, che affronta un processo d’industrializzazione e d’ascesa sociale, deve fare i conti con il Sud considerato «zavorra» economica e culturalmente inferiore. Lo stesso Giolitti, accusato da Salvemini d’essere «il ministro della malavita», abbandona definitivamente il Sud alla violenza della malavita e delle bande armate dei latifondisti. Il Sud è stato e viene ancora martoriato, svenduto e sfruttato.
La Questione Meridionale e La Questione Settentrionale
Il rapporto tra Sud–Nord si fonda su una subalternità funzionale, nel senso che il Meridione è parte organica di un meccanismo di sfruttamento unitario operato tuttora dal capitalismo settentrionale. Questo è un dualismo in cui la classe dominante (Nord) detta le linee dell’economia e l’altra classe (Sud) ne garantisce l’osservanza, in modo da poter assicurare le condizioni su cui lucrare: miseria, ignoranza, sotto-sviluppo, bisogno e dipendenza.
L’arretratezza del Sud è evidente. Nel Sud si ha un drammatico deficit di giurisdizione a vantaggio di poteri collaterali illegali che contendono allo Stato il monopolio della forza. Si ha il dominio della rendita figlia soprattutto della corruzione, una chiara forma d’anti-statalismo che sfocia nell’appropriazione del potere dello Stato e delle sue risorse. Infatti la politica nel Sud è spesso vissuta come fonte di benefici individuali e particolari. La conseguente carenza di opportunità in ogni settore, economico, civile, politico e sociale, fa sì che solo chi sia inserito nel sistema della rendita, regolato da rapporti politici-familiari, può aspirare a una mobilità sociale.
Il Sud è logorato da una burocrazia predatoria, da un sistema malavitoso e dal parassitismo socio-economico. Meno ricchezze civili e sociali, meno opportunità economiche e culturali, come dimostra l’eccessiva disoccupazione giovanile. Ciò rispecchia una società incline a penalizzare il merito e a speculare sull’arretratezza. Tale polarizzazione ha però innescato un processo di contagio del Nord. Il forte movimento demografico da Sud a Nord, il movimento di gruppi mafiosi, la degenerazione dei partiti politici in comitati d’affari dediti alla corruzione, con conseguente permeabilità delle pubbliche amministrazioni e delle strutture pubbliche all’ingresso di elementi affiliati o vicini ai clan mafiosi hanno scatenato la Meridionalizzazione del Nord. In questo modo la questione meridionale è divenuta Questione Nazionale.
Realmente siamo una Nazione?
Gramsci affronta il problema della cultura non-nazionale-popolare, perché al di là delle credenze, neanche la cultura e la lingua ci hanno uniti. Andando fino alle radici più lontane c’è stata più ”nazionalità” nel mondo greco che in quello romano-italico. Siamo una Nazione intrisa di corporativismo, particolarismo, servilismo e opportunismo. L’egoismo genera chiusura e dunque omertà, e sublima la convenienza, definita esclusivamente dai parametri della necessità e dell’ignoranza. Se il fascismo è «autobiografia della nazione», le vicende contemporanee dell’Italia indicano che ne sono altrettanto autobiografia alcuni mali permanenti, a partire dalla mafia e dalla classe dirigente corrotta. Vi è una mentalità endemica che resiste a ogni modernizzazione e riformismo.
Tale arretratezza genera e legittima il fascismo, l’opacità del potere, il mito dell’uomo forte, la delega della democrazia, il familismo malavitoso, la mediocrità dello spirito pubblico, l’abbondanza della retorica separatista e la drammatica mancanza di un’anima nazionale. Gramsci ha creduto nell’unione rivoluzionaria tra operai e contadini; ciò non è stato possibile. Null’altro sarà possibile senza coscienza sociale e storica e senza la rivoluzione morale e culturale delle masse per poter far rinascere questa terra.
È possibile seguire le parole di Gramsci?
«Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti».
Gianmario Sabini