È sabato sera. L’avvocato Guido Rinaldi sta lavorando all’arringa finale di un processo che porterà in tribunale il lunedì successivo.
La figlia Lucia è fuori. La moglie in viaggio di lavoro.
La casa è (apparentemente) deserta e lui può lavorare in tutta tranquillità. C’è solo una cosa che disturba la sua quiete. Una presenza in un angolo, silenziosa e rumorosa allo stesso tempo.
La presenza ha un nome ben definito. Si chiama Nora ed è il fantasma della donna uccisa dall’uomo che l’avvocato Rinaldi dovrà difendere. Ella è una sorta di proiezione con cui l’avvocato dovrà fare i conti per tutto il weekend, che sarà costretto ad ascoltare perfino quando non vuole.
“Nora. Il silenzio deve tacere” è un libro che affronta un tema che siamo costretti ad affrontare nella nostra quotidianità. Un tema che riempie l’agenda setting dei mass-media da anni; parla di femminicidio, e questo è un termine etimologicamente recente, ma la ridondanza datagli da ogni mezzo di comunicazione ha fatto in modo che assumesse le connotazioni di un fenomeno, o forse di una devianza, di portata sociale e collettiva.
Il libro ha il pregio di non essere banale, proprio per il modo in cui decide di raccontare la storia.
Una storia breve, una storia come se ne sentono tutti i giorni: situazioni che traboccano nelle trasmissioni pomeridiane, nei telegiornali e sui social. E questa ridondanza si accompagna spesso ad una spettacolarizzazione del fenomeno che ad un certo punto fa perdere il vero focus del discorso. Il focus diventa semplicemente un attaccamento morboso ad avere quante più informazioni possibili per ricostruire le dinamiche dei fatti, facendo riferimento anche a dettagli insignificanti. Ed invece ciò che queste storie dovrebbero smuovere è la nostra coscienza, attraverso un processo di identificazione e di rieducazione.
E forse la vera forza del libro è questa: l’empatia che riesce a generare e provare “empatia” è il primo passo per innescare solidarietà e consapevolezza.
E il problema è che proprio di empatia siamo spesso tristemente scarsi.
Nell’ambito circoscritto di due giorni e con ben pochi personaggi, il libro si fa portavoce di un messaggio che potremo definire quanto più corale possibile.
Ogni personaggio diventa metafora e simbolo di comportamenti collettivi, e in cui ognuno di noi può rispecchiarsi. Ogni personaggio va a delineare un determinato tipo di figura che non è raro incontrare all’interno della società.
E così Ada, la suocera di Nora, diventa la personificazione di un comportamento con cui, purtroppo, dobbiamo quotidianamente fare i conti. Ada è l’espressione di una mentalità maschilista e patriarcale, che punta il dito sulla vittima in quanto donna. Nora è accusata di non riuscire a fare silenzio e di reagire, di provocare il marito, di voler lavorare, perché in fondo: «Ma che bisogno aveva lei di lavorare?»
Guido Rinaldi e la figlia Lucia diventano, invece, facce di una stessa medaglia. Loro sono estranei alla vicenda. Guido è l’avvocato che deve difendere un assassino, negando qualsiasi preterintenzionalità; Lucia, invece, si trova per caso ad entrare in contatto con la storia di Nora tramite il suo diario, recapitato alla porta della famiglia Rinaldi a poche ore dal processo.
«Nora non aveva distolto gli occhi da lei nemmeno per un secondo. Lucia si era immersa nella sua vita, la prima a farlo spontaneamente, volontariamente. Perfino lei, Nora, in alcuni momenti si era disinteressata della propria esistenza…»
Guido, forte della sua etica professionale, porta avanti una teoria: tutti hanno bisogno di una giusta difesa. Razionalmente il suo discorso non fa una piega e lui non vuole ascoltare Nora, o forse ha semplicemente paura di farlo. Non vuole sapere se la sua morte è stato omicidio o incidente. Non è importante ai fini della sua difesa.
La figlia è di parere totalmente opposto:
«”E qual è il punto?” insisté Lucia bloccando un suo tentativo di spostarsi verso il centro della stanza. “Lui che non l’ha fatto apposta. È questo il punto? Lui che non voleva uccidere. Lui che l’amava da morire… Qual è il punto eh? Lui che si scusava ogni volta per avere esagerato con il suo sconfinato amore?”»
«”Che stai dicendo?” chiese Guido, guardandola stupito, quasi impaurito.»
«Oppure siamo noi, noi che guardiamo sempre. Senza sensi di colpa, perché non è colpa mia, non è colpa nostra. Siamo noi il punto, papà?»
Lucia e Guido sono i due modi diversi con cui accogliamo ogni notizia, ogni pavimento macchiato di sangue, ogni ragazza uccisa dal fidanzato che l’amava troppo.
Guido siamo tutti noi quando chiudiamo gli occhi e le orecchie e cerchiamo di non ascoltare. Quando ci disinteressiamo, considerando il problema non nostro, perché non è accaduto a noi, è accaduto a chilometri di distanza ad un’ennesima donna senza volto né nome.
Lucia è la consapevolezza che la violenza non è lontana da noi. Quella stessa donna senza volto potrebbe essere nostra madre, nostra sorella. Quella donna potremmo essere noi. È la forza di rivendicare la dignità di una vita, anche quando viene brutalmente strappata.
E Nora va a costituire l’identikit della vittima perfetta, mentre il marito è l’idealtipo del carnefice.
La storia di violenza domestica raccontata è una storia tipica: tramite digressioni temporali e flashback vengono sviscerati anni su anni di violenza e di silenzio, di nuova speranza ed ennesima disillusione.
Nora è una donna che, nella morte, non vuole più stare in silenzio, che sente il bisogno di parlare e raccontare la sua storia. Di smuovere le coscienze e soprattutto di non essere dimenticata.
La cosa più pericolosa è che quando la violenza arriva dall’uomo che si ama c’è una sorta di processo di giustificazione. La vittima tende a sentirsi essa stessa colpevole, teme di essere sbagliata o di provocare. Tende a credere che se si fosse comportata in un altro modo e se avesse assecondato il compagno, le cose sarebbero andate diversamente.
«“Non ci sono parole”. E invece sì. Devono esserci le parole. È il silenzio che deve tacere.»
Nei giorni scorsi sui social si è levato forte un grido. È la voce unisone di centinaia e centinaia di donne che si sono unite sotto un hashtag, che raccoglie testimonianze ed esperienze. Ma forse l’hashtag diventa il modo per cercare di esprimere una solidarietà tra donne, troppo spesso tristemente carente; un modo per dire “Me too”.
Anch’io. Perché la violenza non per forza degenera nell’atto sessuale o nell’omicidio.
La violenza è anche un fischio o un apprezzamento inadeguato. La violenza, noi donne, la subiamo ogni volta che ci sentiamo inappropriate nei nostri panni, ogni volta che abbiamo paura di “provocare”.
La violenza molte donne la subiscono senza parlare nella vita di ogni giorno. Quando il fidanzato urla loro contro o quando il marito alza una mano contro la moglie.
La violenza è accompagnata spesso da silenzio o, quando si trova il coraggio di parlare, da una sorta di ridimensionamento di quello che si è subito.
Avere il coraggio di riconoscere la violenza in quanto tale non è semplice: soprattutto quando gli schiaffi e i pugni vengono dalle stesse mani che ci hanno abbracciato e accarezzato, quando le offese e le minacce vengono dalla stessa bocca che ci aveva promesso amore e rispetto. Avere il coraggio di denunciare e di smettere di subire e di smettere di credere che qualcosa potrà cambiare lo è ancora di più.
Perché non esiste e non può esistere il troppo amore per giustificare offese o schiaffi. Esiste il non saper amare e quello non può essere cambiato.
Vanessa Vaia