In ambito artistico si sente spesso parlare di controcultura. Quella degli artisti indipendenti, dell’arte di strada, che corre libera per le strade senza il guinzaglio del Sistema, che è indipendente e libera di esprimersi senza il collare della monetizzazione.

Eppure questo dovrebbe essere il ruolo dell’arte stessa: essere libera, parlare, sputare a terra lo sporco, il vile e il triste. Ma nel secolo più triste della storia dell’umanità – proprio perché è l’umanità che stiamo perdendo – l’arte è stata rapita dal capitalismo e la controarte si è presa il suo compito, che è quello di disturbare.

Arte e commercio sono state legate da sempre. Andy Warhol negli anni 70 sosteneva che «La Business art è il gradino subito dopo l’arte. Essere bravi negli affari è la forma d’arte più elettrizzante. Durante il periodo hippy si rifiutava l’idea del business, si diceva: “I soldi fanno schifo”, “Lavorare è uno schifo”, invece fare soldi è arte, lavorare è arte, fare buoni affari è la migliore forma di arte». Ma anche da artisti ed epoche meno sospette possiamo trovare conferme: basti pensare al Rinascimento, a Giotto o Michelangelo, strapagati dalle casse pontificie perché in auge in quel momento storico.

Eppure qualcosa è cambiato. Secondo Roberto Gramiccia, ciò che si è perso è la sacralità, quella sorta di rispetto per l’artista, per le sue capacità intellettuali e tecniche, che gli permettevano libertà di esecuzione. Prima era il sistema che si adattava alle scelte dell’arte, adesso è l’arte che si adatta alle scelte del sistema. Certo, non si può negare che l’opera la maggior parte delle volte rimane portatrice di un contenuto dissacrante e critico verso i temi della società: anzi, oggi più che mai, la tendenza della “merda d’artista”, cioè di proporre opere sgraziate, orribili, moleste e scomode (basti pensare  Cattelan o Wim Delvoy) ha invaso il trend molto più che qualche centinaio di anni fa, quando le arti figurative rappresentavano la realtà e il contenuto critico rimaneva più velato.

Il potenziale politico dell’arte contemporanea, però, che è enorme, rimane incastrato dentro un sistema che ha tagliato completamente i ponti con il sociale: l’arte non ascolta la società, però parla di lei. E alla fine quello che si crea è un monologo autoriferito che si appoggia su dinamiche commerciali.

Nel mondo paradossale dell’arte capitalista, infatti, il valore di un’opera dipende dal suo prezzo e non il contrario. Si prende un’opera, si monetizza, si mette all’asta, si pubblicizza per farne salire il valore economico, e più questo sarà alto più l’opera sarà appetibile agli occhi dei collezionisti e dei galleristi.

Questo meccanismo si basa sul concetto moderno che più una cosa costa, più vale. Il sistema sceglie il prezzo e – per continuità logica – il valore, legittimando così ciò che è arte e ciò che non lo è. E il trucco funziona perché il popolo, tagliato fuori da un mondo che ormai è solo d’élite (anche perché l’arte è sempre più concettuale) crede ciecamente nella capacità di quest’ultima di scegliere in modo neutro fra ciò che è realmente artistico e ciò che non lo è. Oppure, peggio, resosi conto del meccanismo di monetizzazione, rifiuterà in blocco l’arte credendola ormai incapace di esprimere i disagi personali dell’uomo, percependola solo come una bolla lontana che ha abbandonato l’uomo terreno ai suoi dolori.

Ma che ruolo ha l’artista in tutto questo? È possibile rimanere indipendenti da logiche così grandi? Il Sistema aiuta l’artista ad ottenere visibilità, gli permette di esprimersi e lo alletta con il falso mito dei soldi facili, del grande boom, del talento scoperto.
Così il focus torna sempre all’io, ell’ego, al narcisismo della galleria che è ancora una volta lontano dai bisogni delle strade.

La street art è in un certo senso l’opposto speculare della galleria: non solo per i binomi legale/illegale, outdoor/indoor, ma anche e soprattutto perché l’identità di un autore passa in secondo piano rispetto al messaggio che vuole comunicare.

Napoli è una città intrisa di arte di strada, forse perché gli artisti che da tutto il mondo vengono a dipingerne i muri sentono che qui le strade appartengono al popolo più che altrove, e ogni vicolo porta i segni di chi lo ha attraversato: da artisti napoletani come Cyop e Kaf, che hanno dipinto tutti i quartieri spagnoli rendendoli un museo a cielo aperto, a presenze internazionali come Ernest Pignon con la sua “Pietà di Pasolini” o il ben più noto Banksy.

L’arte indipendente nasce con lo scopo di trasmettere un messaggio, non di adattare quest’ultimo a dinamiche preesistenti: e questo garantisce la purezza dell’idea originale. Ci sono tante zone di confine, però, tante zone grigie che si posizionano tra il bene e il male. Abbiamo parlato in un altro articolo di come molte opere di Banksy vengano staccate dai muri e poste nelle gallerie da chi vuole lucrarci, però è anche vero che molte di queste vengono salvate da chi le potrebbe rovinare. Ancora, lo street artist fiorentino Exit Enter ha disegnato una linea di borse per il brand Damai, dicendo che è importante trasmettere il messaggio artistico anche nel campo della moda, così lontano da quello delle strade.
Può dunque l’arte indipendente trovare un modo per relazionarsi con il Sistema senza perdere le sue peculiarità? Può usare il Sistema per raggiungere un pubblico più ampio senza perdere la purezza delle intenzioni?

I casi sono tanti e diversi, forse perché l’arte rimane ancora – anzi, oggi più di ieri – un campo di significati fluido e compenetrante, spugnoso. Facciamo ancora fatica a definirla, ad afferrarla, perché ha più a che fare con quello che proviamo che con quello che pensiamo. Per questo è così difficile razionalizzare dinamiche artistiche. Possiamo provare a dare definizioni o etichette, ma queste saranno sempre un riflesso delle nostre idee politiche e sociali, perché l’arte, quella vera, quella che si sente con lo stomaco, dovrebbe prescindere da tutto questo.

Ilaria Cozzolino

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