Banksy: un artista le cui opere sono quotate migliaia su migliaia di euro, che vuole solo continuare a regalare arte alle città. Lui stesso disse: “Se i graffiti avessero cambiato qualcosa, sarebbero stati illegali”.
Ho un’immagine fissa nella testa: 2012. Wynwood Art’s Exhibition, uno dei più importanti ritrovi di arte di strada del mondo, a Miami. Fuori, ragazzi che disegnano sui muri, gratis. Dentro i padiglioni, miliardari si accaparrano opere costosissime. Sono esposte quattro opere di Banksy, forse lo street artist più famoso e chiaccherato del mondo.
Sono disegni, stencil, scritte, staccati dai muri su cui sono stati bombolettati, e sistemati comodamente su quelli dell’esibizione, per gli occhi luccicanti di un pubblico imbellettato che fa roteare vino francese.
Tra le opere esposte i famosissimi “Two cops kissing” e “Stop and search”. Nei giorni precedenti sono girate voci che qualcuno sarebbe entrato nel padiglione per rovinare le sue opere. Per questo sono stati messi uomini in divisa come security.
Ricapitoliamo: poliziotti difendono dai vandali le opere di un vandalo che prende in giro i poliziotti.
Benvenuti in questo secolo. Gli anni ’80 ci hanno regalato la street art, che era arte libera dagli schemi. L’abbiamo presa e impacchettata nella carta colorata del capitalismo, ed ecco che nel 2000 la maggior parte delle opere di Banksy viene staccata dai muri, esposta in gallerie private (ne sa qualcosa Stephan Keszler, di professione avvoltoio, uno dei maggiori mercanti d’arte di Banksy) e venduta a privati che se la tiene in casa.
Adesso immaginate di entrare in un bosco e vedere uno splendido esemplare di cervo. Il cervo è bellissimo, ma è mortale. La sua bellezza un giorno finirà, decadrà, nessuno potrà più vederla. Quindi uccidete il cervo, lo impagliate e ne attaccate la testa al muro. Per preservarlo per sempre, lontano dalle insidie della vita. E il cervo così diventa solo un moncone impagliato. Rinsecchito, puzzolente, in un luogo che non gli appartiene.
Torniamo in patria. Anche noi abbiamo una testa di cervo. Si trova a Piazza Girolamini. È la Sant’Anna di Banksy, detta “la Madonna con la pistola”. Giaceva languida di fianco ad una delle edicolette votive di cui il centro storico di Napoli è pieno, con un secchio blu che, cadendo dalla finestra di sopra, quasi le si appoggiava in testa, e un furgoncino degli scarichi parcheggiato di fianco a tenerle compagnia. Era così perfetta, incastonata come un gioiello nell’humus partenopeo.
Adesso Sant’Anna è stata messa in clausura dietro un vetro. Per proteggerla. Almeno così dice la targa che le pesta il lembo del vestito: “Opera di Banksy, custodita dalla Pizzeria del Presidente e Agostino o’ Pazzo”. Poi di fianco è comparso un ristorante con un bodyguad che permette il passaggio solo a chi prende il tavolo. Fine.
Arte libera 0 – 1 Capitalismo.
Per alcuni versi, non viene difficile vedere in Banksy un moderno Oscar Wilde. Dagli antipodi dei loro stili, delle loro produzioni, delle loro attitudini, entrambi condividono quella gioia furbesca e bambina di prendere in giro una società che li idolatra. Così faceva Wilde con la borgesia, così fa Banksy con il capitalismo.
Penso a opere come l’installazione a New York nel 2013: sotto un ponte maleodorante, espose due quadri (realizzati in collaborazione con Os Gemeos, altro famoso street artist) simulando un vernissage a base di vino super economico in un distributore di plastica.
“La nostra arte è costruita con questa idea in mente: che non durerà, e che non esisterà mai per sempre”. Parole di Ben Eine, bombolettaro tra i più conosciuti al mondo.
La street art ha anticipato in modo incredibilmente spontaneo e al contempo lungimirante la tendenza dell’arte contemporanea a creare opere effimere.
Un altro destino, ben diverso, attende infatti quelle opere di Banksy che non vengono derubate dai galleristi. Altri street artist arriveranno, le danneggeranno, ci scriveranno sopra, se ne approprieranno, le copriranno. È il cosiddetto vandalismo a cui si appellano coloro che vogliono catturare le costose prede. Ma è l’arte di strada, baby. Funziona così. Non dura per sempre, cambia e muta, è guerra di trincea per la conquista del territorio. Gli artisti di Brooklyn che scrissero Banksy go home, per protestare contro la presenza della figura così mercificata dll’artista inglese nel loro personale territorio, fanno parte di dinamiche che i galleristi non comprendono minimamente, anzi ridicolizzano.
L’arte contemporanea sta andando in una direzione di caducità ed impermanenza: non è più fatta per durare per sempre, come le statue greche o i dipinti ottocenteschi. L’arte rappresenta la vita, e ad oggi, in un mondo senza certezze, che cambia di continuo, l’artista fa della sua opera qualcosa di similmente precario.
Ce lo ha mostrato la tecnica della performance: il Madre di Napoli ha dedicato una sala ad Azione Teorica di Gina Pane. C’è la spiegazione di ciò che lei faceva, c’è la sedia su cui era seduta, lo specchio e tutti gli altri materiali, ma non c’è Gina e non c’è la performance. È arte finita. Ei fu. C’è stata in quel momento, non ci sarà più.
Ludovica Perina