Abbiamo intervistato Sara Reggiani, specializzata in traduzione di letteratura angloamericana. Con le sue Edizioni Black Coffee ha partecipato al Salone del Libro di Torino, presentando “Happy Hour” di Mary Miller.
Quando è nata la sua passione per la letteratura angloamericana?
«Da ragazzina ricordo che mi mettevo alla prova leggendo i classici americani in lingua originale. Ma la vera passione è nata all’università. Seguivo un corso tenuto da Franco Minganti, grande studioso ed esperto di letteratura angloamericana e fosse stato per me avrei frequentato solo le sue lezioni. In seguito ho iniziato a tradurre per diletto i libri che riportavo a casa dai miei viaggi negli Stati Uniti, dove mi recavo spesso, e a proporli a varie case editrici. Le mie proposte non venivano mai accolte, ma in quel periodo ricordo che affinai un gusto particolare per la letteratura postmoderna. Sognavo di portare in Italia qualcosa di nuovo, quella libertà e quella onestà che trovavo negli autori americani e molto poco nel mio paese. Mentre leggevo, già pensavo che in futuro avrei voluto essere parte attiva del processo di pubblicazione di certi autori. La mia era una passione che andava al di là del semplice piacere. Volevo assorbirla quella letteratura, farla mia, per poi tradurla nella nostra lingua.»
Quando ha letto per la prima volta la Miller, da lettrice, che impressione ha avuto? Invece, da editrice, quando ha capito che valeva la pena proporla al pubblico italiano?
«Io leggo in un solo modo, da traduttrice. Se dopo una cinquantina di pagine muoio dalla voglia di tradurre quello che ho letto, allora decido di pubblicarlo (o, come facevo prima, di proporlo a un editore). Quando ho letto per la prima volta “The Last Days of California” ho sentito il desiderio forte di provare a riprodurre quelle frasi così asciutte e cariche di significato nella mia lingua. Era una sfida. La libertà che ho ora di decidere cosa tradurre e pubblicare è un grande sollievo, perché nulla mi separa più dalle parole che ho tanto amato. Con la Miller è stato un colpo di fulmine, non ho avuto incertezze né con il primo romanzo, né con Happy hour, la raccolta di racconti che abbiamo da poco pubblicato.»
Come traduttrice, può essere difficile mantenere uno stile all’apparenza semplice e naturale come quello di Mary Miller?
«È molto difficile. Noi italiani abbiamo la tendenza a infiorettare le frasi, a infarcirle di avverbi e aggettivi. Ce l’hanno insegnato a scuola. Il lavoro di sottrazione è complicato e doloroso, ma quando ottieni un buon risultato la soddisfazione è enorme. Se non mi fossi sforzata abbastanza di riprodurre in italiano la semplicità del linguaggio di Mary, l’avrei snaturata. Ho dovuto rileggere molte volte la traduzione per arrivare alla giusta proporzione.»
A luglio, per Big Sur, uscirà la sua traduzione di “High Dive” di Jonathan Lee. Posso chiederle come è stato lavorare su questo autore?
«Molto complicato. Il libro è narrato da tre punti di vista: quello di una ragazzina adolescente, quello di un uomo di mezza età e quello di un ragazzo di strada. I registri variavano sensibilmente da una sezione all’altra ed è stata una vera e propria opera di funambulismo destreggiarsi fra i vari livelli. Inoltre mi sono spesso imbattuta in termini tecnici legati al mondo dei tuffi e non è stato semplice. Come sempre è stata l’esperienza a venirmi in aiuto, essendo stata a lungo io stessa nuotatrice e sincronetta.»
Lei ha tradotto “Nelle pieghe del tempo” di Madeleine L’Engle, di cui esisteva già una traduzione. Come si affronta un testo che è già stato tradotto?
«Mi avventuro nella traduzione senza leggere la versione precedente, per non essere troppo influenzata (rischierei di incorrere in eventuali errori o scelte discutibili dell’altro traduttore o di “copiare” il suo approccio perché particolarmente adatto). Ricorro alla prima traduzione solo se in forte difficoltà, per avere conferme o sciogliere dubbi.»
Quando Black Coffee era una collana, avete pubblicato “Rosa shocking” di Adam Levin. Avete intenzione di pubblicare anche il suo “The Instructions“ in futuro, oppure altri autori della letteratura Jewish-American, come Joshua Cohen?
«Ho riflettuto a lungo se pubblicare anche il suo primo, mastodontico romanzo, ma non mi è sembrato il caso. Attenderò che Levin scriva qualcos’altro. Anche Joshua Cohen mi aveva incuriosito ed ero sul punto di acquistare i diritti di un suo libro, ma non riuscivo a togliermi dalla testa l’impressione che molto di ciò che scriveva fosse solo un esercizio di stile, non lo sentivo onesto, e ho seguito l’istinto. Dovessi imbattermi in altri autori Jewish-American che valgano la pena, sarò ben lieta di dare loro una possibilità.»
Ha un libro preferito tra quelli che ha tradotto?
«Sono legata a molti dei libri che ho tradotto, come “Rosa shocking” appunto e “Il corpo che vuoi” di Alexandra Kleeman, ma ho un affetto particolare per un libro che ho tradotto in collana, “L’amante di Wittgenstein”. Avevo proposto questo capolavoro di Markson a molti editori, ma nessuno se la sentiva di pubblicarlo, così quando ho avuto gli strumenti per occuparmene di persona è stata una gioia immensa. È un libro difficile, ma non assomiglia a nient’altro che abbia mai letto e non mi sembrava giusto che in Italia nessuno potesse avere la possibilità di apprezzarlo. Lo vivo un po’ come un traguardo nella mia carriera.»
Libero Pensiero News ringrazia Sara Reggiani per la disponibilità.
Intervista a cura di Luca Ventura