Un fugace incontro d’estate, uno di quelli brevi, intensi, capace di lasciare ricordi bellissimi e incorruttibili. Tredici (13 Reasons Why) è così, una serie in grado di fare breccia nell’immaginario e nella coscienza di chi la guarda.
Tredici, come le puntate che compongono la serie, le stesse, in grado di tracciare uno spaccato realistico (nei temi) e ben romanzato (nella forma) della vita di alcuni liceali.
Tredici, sono anche le musicassette vintage, che la protagonista, la giovane Hannah Baker, decide di distribuire (post-mortem e un po’ macabramente) ai suoi compagni di scuola nonché ragioni del suo tragico suicidio.
No, come avrete capito, non è solo una serie con adolescenti incazzati col mondo e l’ormone a mille, è un teen drama, ma più drama che teen. È un viaggio fra i banchi di scuola, nell’intruglio delle dinamiche relazionali complicate e di pancia, di quell’età. Una discesa antropologica, tra gli effetti e le conseguenze nefaste innescabili da una foto ambigua, da una risatina di scherno, dal fidarsi della persona sbagliata. Questioni ancora più devastanti se a perpetrarli è chi credevamo fosse nostro amico.
Non vi è mai capitato nulla del genere? Su, in fondo siamo stati tutti adolescenti.
La serie, comunque, si dipana servendosi di questo serbatoio tematico e lo fa attraverso due linee temporali separate (il pre-suicidio con la storia Hannah, e il post-suicido con il mistero delle cassette) che si intersecano, si avvicinano e si allontanano, fino a confluire, grazie ad un montaggio a chirurgico e coinvolgente, nello straziante (e preoccupante) epilogo finale.
Ma chi è Hannah? È una di quelle tante persone defilate alla nostra coscienza, quei fantasmi fluttuanti presenti solo a livello liminale e spesso inconscio, che si palesano nella parentesi ordinarie della nostra giornata.
Sono il dettaglio insignificante, i senza nome. Hannah è così: non è nessuno per i ragazzi e i professori della sua scuola, è solo la ragazza troia. E poi, la ragazza morta. Si ignorano le sue particolarità, la sua biografia, la sua storia, almeno fin quando la questione non diventerà più annosa e stringente.
Hannah è quindi la vittima, stanca della condotta oppressiva e vessatoria dei suoi compagni, colei che preferisce farla finita in quanto schiacciata da problemi effimeri, se visti con un occhio poco attento e superficiale, ma tremendamente importanti per una teenager.
E’ una ragazza sola, ed è proprio la solitudine – bestia indomabile per alcuni – che la porterà al suicidio. Una solitudine che attornierà anche i genitori , persi e imbavagliati nel loro dramma familiare, e lasciati soli da tutto e da tutti: comunità, amici, istituzioni e rei di aver chiesto giustizia dopo la morte della figlia. La più inadeguata sembra essere proprio l’istituzione scolastica, attenta solo ai protocolli e alla forma del cordoglio, ma che nella sostanza ignora, o addirittura fa muro, alla famiglia della malcapitata. Nessuna empatia. Nessuna solidarietà. Solo tanta, ma tanta, ipocrisia.
La solitudine dicevamo, quella derivante da un irrisolto problema semiologico: l’incomunicabilità tra il mondo degli adulti e quello degli adolescenti. Un muro metaforico, ma che tanto metaforico non è, inspessito come non mai nell’età dell’emancipazione sessuale e dell’ascesa del web. Si parla, quindi, di due universi, portatori di due linguaggi diversi che si incontrano solo nella tragedia e in maniera tutt’altro che oliata.
Tredici è, inoltre, una serie tv impressionante per come ha deciso di rappresentare il dolore. Non lo fa in maniera pornografica, esito prevedibile visto il tema, ma lo fa in modo tellurico, con una delicatezza e un tatto sconcertanti, fino a tastare e accartocciare in mille pezzi l’anima di chi guarda.
Il dolore non è unico, prodotto con lo stampino e rimestato in tutte le salse, ma trasferito in maniera variegata fra i protagonisti: trasformato in dramma per i genitori di Hannah, in tormento per alcuni compagni di scuola, in semplice impiccio per l’istituzione scolastica e del corpo docente.
L’altro protagonista è senza dubbio Clay, ragazzo imbranatello infatuato di Hannah, che poi diventerà il grillo parlante, ovvero la coscienza indignata; colui che tenterà di calibrare gli eventi passati con quelli del presente (altrettanto drammatici) per portare a galla la verità in nome della morale più virtuosa e rilucente. E anche di un amore, probabilmente.
Ma non dimentichiamo la più grande qualità di Tredici, ovvero quella di non rendersi latore di una facile retorica: non condanna il bullismo, non si limita a sparare a zero sul tema. Lo denuncia, ma problematizzandolo. Sa che è una parte inevitabile dello stare insieme fra ragazzi, una questione etologica e necessaria, in quanto, a quell’età, non esiste ancora quella coltre di buonismo e apparenze (ma anche quell’idea genuina di maturità) caratteristica degli adulti che permette di attenuare un certo tipo di superbia insita nell’animo umano.
E’ una serie pedagogica ma che non impone alcuna morale né si permette di archiviare gli eventi sotto un’etichetta. Ma lo fa implementando un’efficiente piattaforma intrattenitiva sui toni del thriller. Mica pizza e fichi.
Siamo soli, tremendamente soli. Ma l’importante è non accorgersene. Che sia questo il messaggio che voglia trasmettere Tredici?
A voi, l’ardua sentenza.
Enrico Ciccarelli