Poche ore fa il presidente russo, Vladimir Putin, ha pronunciato un attacco neanche troppo velato contro l’omologo turco Recep Tayyip Erdoğan, dicendo testualmente che «la cricca al governo in Turchia continuerà a pentirsi di ciò che ha fatto», alludendo all’abbattimento del Sukhoi russo il 24 novembre al confine con la Siria.

La risposta di Ankara non si è fatta attendere, e subito dopo le esternazioni di Putin, successive ad altre accuse molto pesanti in merito ad alcuni presunti affari fra la Turchia e lo Stato Islamico, Erdoğan ha definito “immorali” le insinuazioni rivolte al suo paese, facendo intendere che non ne saranno tollerate di nuove, ed anzi rilanciando con accuse ai russi, ritenuti coinvolti nel contrabbando di petrolio gestito dall’Isis in Siria.

Quello che dall’esterno potrebbe sembrare un pericoloso scenario, prodromico a vere e proprie azioni di guerra da parte dei paesi coinvolti, può essere letto anche in una chiave molto meno inquietante, posto che nell’attuale momento storico è necessario che la comunità internazionale crei un fronte comune contro il terrorismo. Testo e musica di Vladimir Putin.

La questione, tuttavia, è molto più profonda, ed è caratterizzata da un delicato sistema di equilibri e alleanze che non è possibile ignorare, al fine di analizzare compiutamente ciò che sta accadendo negli ultimi giorni.

In primis, il ruolo della Turchia, che non è – e non è mai stata – un paese marginale nella geopolitica medio-orientale, se non, oseremmo dire, globale, visti i suoi rapporti privilegiati con gli Stati Uniti, definiti un “partenariato modello” dallo stesso Obama durante la sua visita ad Ankara nell’aprile del 2009.

Ed è proprio questo lo scenario in cui si inseriscono le schermaglie fra Putin ed Erdoğan, che spostano fra i loro paesi gran parte delle tensioni esistenti fra la Russia e gli Stati Uniti sulla questione siriana.

Tutto ciò ha origine nella diversa strategia politica di Obama e suoi in Medio Oriente, a cominciare, ma non solo, dal diverso rapporto con la Siria, dove i russi continuano a sostenere il presidente in carica, Bashar al-Assad, mentre gli americani desiderano un cambio di regime, obiettivo che li ha spinti, per lungo tempo ma con risultati insoddisfacenti, ad armare i ribelli.

Ad ogni modo, le scelte geopolitiche degli Stati Uniti già da tempo propendevano per la creazione di un ambizioso quanto labile equilibrio nella regione, promuovendo una politica di buon vicinato fra le potenze vicine, fra cui la Turchia e la Siria, ma anche l’Arabia Saudita e persino Israele.

In questo modo, anziché inviare le proprie truppe in giro per il mondo, impegnandole in operazioni militari impopolari tanto in patria quanto all’estero, gli Usa avrebbero potuto delegare alle forze regionali la gestione degli eventuali stati di crisi.

Il problema si è progressivamente spostato sulla Turchia, che, dopo essersi allontanata dalla Siria, si è, paradossalmente, avvicinata proprio alla Russia, storico antagonista statunitense, con la quale ha concluso affari anche molto importanti, come il gasdotto fra i due paesi (è tuttora in previsione la costruzione di nuovo condotto, pensato per far arrivare in Europa il gas russo, aggirando l’Ucraina), ma anche la costruzione di una centrale nucleare in Turchia, appaltata ad un’impresa russa.

Riassumendo, le tensioni fra Putin ed Erdoğan altro non sono che scaramucce fra soci in affari, molto più amici fra di loro che con Obama, che in questo momento sta rivestendo un insolito ruolo da paciere. Insolito non perché non sia adatto, ma perché probabilmente dovrebbe essere il primo a dubitare della fiducia dei suoi attuali interlocutori.

E l’Unione Europea?

Posto che quelli che, con una buona dose di fantasia, qualcuno chiama Stati Uniti d’Europa non sono poi molto uniti in materia di politica estera, è di tutta evidenza come, anche da un punto di vista geopolitico, l’Europa dei 28 non abbia lo stesso peso specifico di Russia e Stati Uniti. Ma, a ben vedere, nemmeno della Turchia, molto più coesa e sita in posizione strategica, soprattutto nell’attuale contesto internazionale.

L’UE è balzata agli onori delle cronache per aver versato circa 3 miliardi di euro nelle casse turche, allo scopo di aiutare Ankara nell’affrontare la crisi dei rifugiati sul suo suolo nazionale.
Questi soldi dovrebbero servire a gestire l’emergenza umanitaria, obiettivo impossibile da realizzare senza la collaborazione fattiva della Turchia, sulla quale, tuttavia, in molti nutrono più di un dubbio.

Ma per quale motivo?

In primo luogo, per la suesposta gestione dei rapporti con gli Stati Uniti, prima, e con la Russia, poi. Senza contare l’intrinseca ambiguità del governo di Erdoğan, accusato di aver appoggiato organizzazioni come i Fratelli Musulmani in Egitto e Hamas in Palestina, nonché in aperta contrapposizione al popolo curdo, il più grande gruppo etnico del mondo senza uno Stato, concentrato oggi su un altopiano mediorientale sito fra il Tigri e l’Eufrate, l’antica Mezzaluna Fertile, in un territorio politicamente diviso fra Iran, Iraq, Siria e, appunto, Turchia.

Fra le caratteristiche dei curdi, il fatto di rappresentare il principale alleato dell’Occidente nella lotta contro lo Stato Islamico.

La vera domanda, oggi, è come tutto questo si concilia con il ruolo della Turchia nella lotta al terrorismo: è questo il principale nodo da sciogliere per capire quali saranno i prossimi scenari geopolitici globali.

Carlo Rombolà

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