Per capire chi è (stato) Gianfranco Zigoni è necessaria una doverosa premessa: esistono giocatori che lasciano il segno nel mondo del calcio per le loro capacità tecniche, per le loro abilità tattiche e per la loro bravura; ce ne sono altri, invece, che vengono ricordati per il loro carattere e la loro personalità e che resteranno per sempre nei cuori di chi li ha amati. Ecco, Gianfranco Zigoni è uno dei pochi che decisamente in entrambe le categorie.
GLI ESORDI E IL CALCIATORE
Attaccante longilineo e dotato di grandi capacità tecniche, Gianfranco Zigoni vanta una carriera calcistica di livello: l’esordio con la Juve nel 1961, i tre anni a Genoa, le esperienze a Brescia e a Roma fino al termine all’inizio degli anni ’80. Ma, più di tutte, è stata l’esperienza a Verona a dar maggior lustro allo Zingoni calciatore. In terra scaligera, infatti, il buon Gianfranco riuscì ad esprimersi al meglio tanto da farsi amare ed apprezzare da tutto il popolo veronese.
Zigoni è riuscito ad entrare nel cuore dei gialloblù, ma anche Verona si è fatta apprezzare da “Zigo”, tanto che lo stesso arrivò a desiderare di vedere abbinato, un giorno, il suo nome allo stadio Bentegodi. Significative le sue doti calcistiche, che lo hanno portato ad ottenere anche una convocazione in Nazionale, contro la Romania a Bucarest il 25 giugno 1967 in quella che, a causa prevalentemente del suo carattere, è rimasta la sua unica esperienza in maglia azzurra. Quel giorno, infatti, a causa del caldo, Zigoni decise di giocare solo un tempo, per evitare di accaldarsi troppo. Questo episodio ci dà la dimensione di un’attitudine tanto geniale quanto sregolata che ha caratterizzato tutta la carriera del classe ’44.
IL PERSONAGGIO
Giacobino, genialoide, incompreso, sovversivo, estroverso, rivoluzionario sensibile. Fin da piccolo venne abituato a difendere il proprio territorio (il quartiere Marconi della natia Oderzo) con una fionda, facendo subito capire di essere un ragazzo avvezzo ad atteggiamenti atipici. Come dimenticare, infatti, la passione per lo “sparo ai lampioni dalla camera d’albergo“, il gioco inventato per rendere meno pesante i ritiri?
Come dimenticare, poi, quella volta in cui – escluso dai titolari – si presentò in panchina con pelliccia bianca e cappello da cowboy? Consapevole che il sistema fosse da combattere e che “la gloria è il tutto e il tutto è il nulla“, non si è mai rassegnato mai ad adeguarsi al mondo del calcio cui non si sente “moralmente” di appartenere. Un mondo elitario, che gode di benefici inaccettabili che da sempre combatte. A tal proposito vien da pensare cosa avrebbe detto oggi, da giocatore, sui tanti temi d’attualità che vedono coinvolti i calciatori della massima serie e dei benefici di cui godono
Figlio di operaio, non si è mai rassegnato alla condizione di subordinazione e sfruttamento dei lavoratori rispetto ai padroni che, di contro, beneficiano di elevatissimi guadagni e di una vita agiata. Appassionato tanto del Che quanto di Gesù, non ha mai perso occasione per ribadire che i due non sono affatto in contraddizione tra di loro in quanto fu proprio Gesù ad aver per primo teorizzato “che tutti gli uomini sono uguali“.
Dalla parte dei lavoratori, ma non comunista, e questo perché ha sempre amato il denaro e la bella vita. La sua onestà intellettuale, però, non gli ha mai impedito di combattere le ingiustizie, perché «nulla vi è più importante nella vita che l’affermazione di se stesso, della propria autostima e del combattere ciò che è ingiusto». In quest’ottica tutte le squalifiche raccolte per aver “replicato” agli arbitri trovano una propria ragion d’essere, anche se spesso il prezzo da pagare – fuor di metafora – per i suoi comportamenti è stato alto. Come quando è anche una multa di 30 milioni di vecchie lire per aver detto ad un guardialinee di mettersi la “bandierina proprio lì“. Il tutto con il relativo, bellissimo commento “30 milioni sono il prezzo della mia libertà di opinione“.
L’INCONTRO CON PELÈ
Personaggio sui generis, quindi, che non ha mai apprezzato i prepotenti e che, conseguentemente, non ha mai ammesso che ci potesse essere qualcuno più forte di lui. E quanto accaduto durante l’amichevole Roma-Santos rende perfettamente queso concetto.
Stagione 1972. Si incontrano all’Olimpico la Roma di Zigoni ed il Santos di Pelè. Zigoni, definito dallo stesso Trapattoni poco tempo prima più forte di O’Rey, ha finalmente l’occasione di dimostrare, davanti al suo dirimpettaio, chi è il più forte. Insomma, l’uomo che ebbe l’ardire di sfidare gli dèi, ritenendosi un dio a sua volta. “Zigo” scese in campo baldanzoso, ampiamente convinto delle sue possibilità e sicuro che avrebbe dimostrato a tutto il mondo chi fosse davvero il miglior giocatore del pianeta.
Purtroppo, non sempre Davide finisce per sconfiggere Golia: una volta in campo, Pelè fu imprendibile e dimostrò di essere un vero fenomeno. Zigoni, una volta realizzato ciò, si demoralizzò fino a pensare – a partita ancora in corso – di smettere con il calcio perché uno come lui non poteva accettare la presenza di qualcuno che fosse più forte di lui. Almeno, fino a quando al Santos non venne assegnato un rigore, che venne sbagliato – manco a dirlo – proprio da Pelè: la decisione di ritirarsi fu istantaneamente revocata. D’altra parte, anche il più forte al mondo aveva dato cenni di umanità.
Zigoni sta tutto lì: tutta la sua essenza è cristallizzata in quella gara, in cui fu in grado di elevarsi così tanto verso il sole da far sciogliere le ali della sua superbia e cadere rovinosamente al suolo. Una presunzione di superiorità che mascherava un’enorme fragilità, ma che, contestualmente, celava i contorni di una di una sensibilità grandissima. Questa, però, era da ricercare non solo nella lotta ai “poteri forti”, ma anche in significativi gesti quotidiani. Come quella volta in cui, dopo aver sparato ad un merlo, guardando gli occhi del volatile che quasi gli chiedevano «ma perchè lo hai fatto?» decise di autopunirsi ferendosi con un filo di ferro.
DA CAMPIONE MALEDETTO A PELÈ BIANCO
Gianfranco Zigoni è stato etichettato in tanti modi: talento sprecato, giocatore alternativo, il campione con la pelliccia. Tanti sono gli epiteti che gli sono assegnati e che sono derivati dai suoi comportamenti che lo fanno entrare, a testa alta, nella cerchia dei giocatori “maledetti”, e anche un po’ “vintage”
Ma se è vero che lui stesso ha tenuto a puntualizzare che oggi i protagonisti degli stadi vengono chiamati calciatori perché “corrono e calciano tutto” mentre quelli della sua generazione erano “giocatori perché sapevano giocare a calcio“, Zigoni non sarà certamente d’accordo nel farsi strada nella memoria calcistica collettiva solo per il suo carattere controverso.
Ed è per questo che a noi piace esaltarlo anche per le sue gesta calcistiche, come quelle mostrate nella sua partita d’addio quando fu assoluto protagonista tra le file del Piavon contro Musile di Piave (2 categoria veneta) permettendo alla sua squadra di imporsi 5-4 grazie ai suoi 4 gol mandando in estasi tutto il pubblico. Gesta che, insieme al carattere, lo incoronano sì come il “Pelè bianco“: di testa e di piede.
Fonte immagine in evidenza: storiedicalcio.altervista
Salvatore Fiori