Primavera è fioritura, rinascita; sostituire l’usurato col nuovo. O semplicemente svecchiare l’antico, guardare al passato da una prospettiva alternativa sulla quale, poi, costruire il futuro. Ce lo insegnano gli uomini dei tempi andati, gli intellettuali che, circa sette secoli fa, hanno fatto sì che sbocciasse la più bella delle belle stagioni della storia: l’Umanesimo.
Catturato finemente dall’occhio e dalle tempere botticelliane, che all’eternità affidano l’armonia di una Primavera ideologica prima ancora che di natura, l’Umanesimo fu risveglio di passioni, idee, giudizio critico. E, soprattutto, il manifestarsi repentino di un “sogno” che ebbe al suo centro la decaduta grandezza di una città-mondo: Roma.
Recuperare memorie gloriose, contribuire alla loro diffusione diventa così obiettivo vitale di letterati e artisti di diversi centri italiani che, tra la seconda metà del Trecento e i primi decenni del Cinquecento, fecero fronte comune in nome dei cosiddetti studia humanitatis.
Non di rado trascurato dagli insegnanti e, più volte, biasimato dagli studiosi per il carattere cortigiano dei suoi prodotti, il movimento umanistico, pur guardandosi alle spalle, sancisce – non lo si può negare – l’inizio della modernità: soltanto con gli umanisti, difatti, si sviluppa la percezione di un prima e un dopo, e il tempo, da sempre considerato un inarrestabile continuum, comincia finalmente a conoscere una scansione.
«Siamo come nani sulle spalle di giganti – diceva Bernardo di Chartres – così che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non certo per l’altezza del nostro corpo, ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti».
Giganti sono i classici latini, spogliati dalla patina cristianizzante di cui il Medioevo ha voluto rivestirli; nani, invece, coloro che imparano a scorgere nei testi del passato gli strumenti utili a una corretta interpretazione del presente.
È con l’Umanesimo che nasce la scienza filologica, il gusto per la ricerca, che non è soltanto volontà di scoprire quanto è stato dimenticato – manoscritti impolverati, cippi o epigrafi nascoste –, ma è anche, prima di tutto, propensione al vero: basti pensare all’operato di Lorenzo Valla che, erede dei metodi meticolosi di Petrarca e antenato degli spietati cacciatori di fake news, non si limita a rifondare una lingua, quella latina, e a salvarla dal degrado, ma piuttosto fa di essa il mezzo per smascherare la falsità di un documento di capitale importanza, qual era la Donazione di Costantino.
Agli umanisti, però, non basta sviscerare il passato, privarlo delle incrostazioni medievali per meglio intendere il contemporaneo. Da Virgilio, dal Cicerone dell’Epistolario – rinvenuto dall’inesplorata oscurità della Biblioteca di Verona –, da Seneca, Ovidio si pretende una luce potente, in grado di rischiarare il fondo dell’anima: sulle spalle dei giganti si sale sì per guardare lontano, scorgere orizzonti prima esclusi dalla propria visuale, ma anche per scrutarsi dentro, conoscere sé stessi in ogni aspetto.
Umanesimo, parola coniata soltanto nell’Ottocento, significa, di fatto, fare dell’uomo principio e fine di ogni sapere, allentare la tensione verso il divino, proiettarsi verso un aldiquà nel quale poter esprimere liberamente i desideri dello spirito che, ora, trova nel corpo non più l’involucro da cui fuggire, bensì il suo tempio. Il Medioevo, con i suoi timori e le sue ansie ultraterrene, risulta così superato: resta però l’esperienza degli amanuensi, di monaci come il già citato Bernardo di Chartres che, con il loro smisurato amore per i classici, fanno da ponte tra l’antico e il moderno.
Leggere, studiare, contestualizzare, scandagliare opere, dinamiche esteriori e interiori indirettamente rapportabili alle opere stesse, sono dunque i principi imprescindibili di un’avventura culturale che meriterebbe di essere perseguita. Soprattutto a scuola.
Quante volte ci si affida ai manuali, alle pure nozioni – di certo preliminarmente indispensabili –, alle posizioni di autorevoli critici, convinti che sia superfluo scavare nel testo alla ricerca di eventuali riscontri? O di ulteriori elementi su cui potersi interrogare in qualità di uomini, animali sociali, prima ancora che come alunni chiamati ad assimilare conoscenze?
Analizzare puntualmente quanto si apprende, mettere in discussione quanto si eredita dai libri, perfino dagli insegnanti, costerebbe, in effetti, tanta fatica. Ma, al contempo, si aprirebbero mondi dentro e fuori, e miriade di occhi che, liberati dal velo del preconcetto, inizierebbero a distinguere il falso dal vero.
In un’era in cui è facile prendere abbagli, lasciarsi convincere dagli affabulatori – che siano essi politici, scienziati o critici letterari –, trascurare la scoperta dell’altro e di sé stessi, bisognerebbe educare i giovani all’Umanesimo. Porre le basi per una primavera del pensiero.
Anna Gilda Scafaro