Da anni si discute della pubblicazione di un codice deontologico per la professione docente da parte del Ministero dell’Istruzione. L’Associazione Docenti e Dirigenti Scolastici (ADi) ne ha approvato uno nel 1999 e vincola gli associati ad osservarlo e rispettarlo. Il lodevole tentativo dell’associazione non concretizza però ciò che già esiste per altre categorie professionali per le quali sono stati riconosciuti codici deontologici ispirati al senso del dovere. Attualmente la condotta dei docenti è regolamentata in una serie di norme che rientrano nell’azione generale della Pubblica Amministrazione. Eppure, il docente, come il medico, agisce sulla vita delle persone. Le famiglie affidano alla scuola i propri figli, affinché ricevano educazione, istruzione e formazione. La chiave di volta della scuola è costituita dal corpo docente i cui comportamenti e le cui azioni hanno una ripercussione su quelli che saranno i cittadini di domani.
I nostri tempi sono segnati da un grandissimo disorientamento morale e mancano esempi edificanti ed il giovane, ancora immaturo ed insicuro, in una fase delicata della crescita, assorbe come una spugna l’ambiente che lo circonda e diventa “buono” o “cattivo”, educato o maleducato, gentile o violento, secondo la propria sensibilità. Viviamo in una società distratta e malata che non educa i suoi figli, non restituisce loro sicurezza e anzi ne accentua il disagio esistenziale e la difficoltà di vivere una vita significativa perché non garantisce punti di riferimento e non premia capacità e meriti.
La scuola ha una sua responsabilità a determinare il fenomeno, influenzando il discente ad attribuire senza nessuna distinzione o critica alcune caratteristiche a un’intera categoria di esseri viventi, non curanti delle possibili differenze che potrebbero invece essere rilevate, inducendo l’individuo a modificare il proprio comportamento sulla base di queste credenze. Intervenire su questi aspetti non è qualcosa di immediato e solo una grossa forza di volontà e intenzione di entrare realmente in contatto con l’altro potrebbe portare, alla lunga, a mettere in discussione queste forme di rigidità di pensiero.
In questo contesto è diventa centrale il concetto di “empatia”, cioè la capacità di immedesimarsi nell’altro. Dovrebbe essere questo uno dei punti cardini della formazione personale e scolastica. Riesaminare le tradizioni di pensiero dominanti nella nostra cultura, sgombrando il campo dalla convinzione che l’unico soggetto meritevole di tutela debba essere l’essere umano: per fare tutto questo basta solo cambiare il punto di vista e riflettere su quanto già conosciamo, mettendo in luce dove abbiamo sbagliato e con chi, in modo da renderci conto degli errori, per non commetterli mai più.
Le attuali emergenze sociali, la cui portata è purtroppo planetaria, obbligano l’uomo ad interrogarsi sul suo rapporto con l’”altro” e, sempre più, rendono evidente che esso non può continuare in un atteggiamento predatorio o anche semplicemente utilitaristico, ma deve aprirsi a considerazioni di etica globale: un necessario passaggio, dunque, dall’antropocentrismo al biocentrismo. Il rispetto non è un concetto che si può insegnare ma è un atteggiamento che si viene a sviluppare all’interno di un contesto sociale. Ma finché la società resta indifferente a certe questioni di etica morale difficilmente si riuscirà a risolvere la questione “noi e gli altri” e continueremo a vivere come in una giungla dove il “più favorito” l’avrà vinta su quello “meno favorito”.
Del resto ogni volta che definiamo una priorità manifestiamo il nostro bisogno di prevaricazione e limitarsi all’insegnamento dei soli diritti umani determina questo tipo di processo. Tuttavia, come afferma l’intellettuale antispecista Marco Maurizi: «la liberazione umana senza liberazione animale è vuota. La liberazione animale senza la liberazione umana è cieca». La nota locuzione del filosofo italiano, chiaro esempio di prospettiva antropocentrica, poiché dal riconoscimento della facoltà di pensare come esclusiva dell’essere umano si fa derivare la sua superiorità sulle altre specie, può essere reinterpretata, dall’opposto punto di vista, come condizione di un obbligo “esteso” alla responsabilità verso il pianeta e tutti i suoi abitanti, umani e non-umani. Se, infatti, soltanto l’umanità può sollevare questioni morali e interrogativi e soltanto essa può operare delle scelte in merito alla propria condotta, da ciò deriva per essa una responsabilità per le conseguenze delle proprie azioni. In secondo luogo, questo richiamo, con il suo implicito invito alla problematizzazione, appare appropriato a porre in luce la prospettiva critica che è propria della riflessione bioetica attuale.
Quando il codice dell’ADI enuncia che «l’insegnante agisce secondo verità e deve farlo attraverso il metodo critico e mai secondo quello dogmatico, cosicché la verità emerga sempre nella dialettica dei punti di vista e come approssimazione della verità», pone il docente nella condizione di non poter eludere e negare la sofferenza degli animali e dell’atteggiamento predatorio e crudele dell’uomo nei confronti di questi. Non può non affrontare argomentazioni che mettono in discussione il nostro modo di alimentarci ed omettere di presentare punti di vista diversi. L’insegnante non può e non deve mentire mostrando gli animali felici “nella vecchia fattoria” e allo stesso tempo invogliare i discenti a mangiare carne, latte e derivati, celando la crudeltà che si nasconde dietro questa abitudine alimentare.
Se l’etica, difatti, non pone specifici doveri e non prevede l’applicazione di sanzioni per chi non agisce secondo i suoi dettami, ma definisce solo la posizione del soggetto rispetto ad una valutazione del bene e del male, la deontologia, invece, è quel complesso di regole di condotta che devono essere rispettate nell’attività professionale.
Se il mondo accademico inizia a riconoscere l’importanza delle relazioni uomo-animale, addirittura al punto da attivare dei corsi sul tema, come è accaduto per l’Università degli Studi di Milano, è chiaro che non sia professionalmente accettabile da parte di un insegnante continuare ad ignorare le questioni intraspecifiche e ad ometterle nella loro pratica di insegnamento. Tale atteggiamento sarebbe nettamente in controtendenza rispetto a ciò che è stato dichiarato: è dovere di un insegnante fornire informazioni che siano complete e svincolate da qualsiasi tipo di ideologia. Ancora peggio se ancorate a pensieri e logiche che appartengono ad un tempo ormai superato. Eppure è ancora fortissima la consuetudine di proporre una visione del mondo antropocentrica.
È importante, quindi, fornire una visione globale degli argomenti proposti affinché i discenti sviluppino la capacità di ragionamento che consentirà loro di scegliere consapevolmente nei momenti critici. Considerato che possedere le fondamentali abilità cognitive, sociali, emotive e relazionali consente agli adolescenti di raggiungere importanti obiettivi di crescita, evitando di incorrere in comportamenti che possono compromettere il benessere di tutti, è necessario stimolare il discente ad osservare la realtà da prospettive diversificate ed eventualmente innovative e di stimolare e sviluppare il senso critico e l’apertura a punti di vista differenti dal proprio. Ogni docente può avere il proprio pensiero, ma di certo non può e non deve escludere dal suo processo di insegnamento questioni etiche e morali che ormai sono alla portata di tutti.
Paolo Treglia