‹‹La sofferenza, il dolore sono l’inevitabile dovere di una coscienza generosa e d’un cuore profondo. Gli uomini veramente grandi, credo, debbono provare su questa terra una grande tristezza.››
Sullo sfondo di una Pietroburgo lugubre e tetra, aliena alle eclatanti sontuosità della città imperiale, si snoda la vicenda di Raskol’nikov, “un giovane, espulso dall’università, di famiglia piccolo borghese, poverissimo, decide di uscir di colpo dalla sua triste situazione e uccidere una vecchia usuraia: una vecchia stupida, sorda, malata, avida, cattiva. Egli decide di ucciderla e diventare in seguito – e per sempre – un uomo onesto, risoluto, inflessibile nel compiere “il proprio dovere verso l’umanità.”, come scrisse Dostoevskij in una lettera al suo editore. Questa la trama di uno dei pilasti della letteratura russa: “Delitto e castigo”.
In Raskol’nikov, il cui nome raskol’ in russo, significa “scisma”, “scissione”, scalpitano i demoni dell’imperituro conflitto tra bene e male, tra il nobile sentimento della giustizia e la riprovevole putredine dell’ingiustizia. Nella machiavellica intelaiatura del romanzo, infatti, egli macchina l’assassino della vecchia usuraia non per appropriarsi prosaicamente delle sue ricchezze, al contrario per perseguire il suo rocambolesco ideale, secondo cui è legittimo, è “giusto” uccidere, qualora la vittima si riveli inutile per il progresso dell’umanità, qualora essa si profili come un rovinoso svantaggio per il bene del mondo. Tale compito oneroso, tuttavia, spetta soltanto agli uomini “napoleonici”, ai super uomini nietzschiani, gli esseri superiori, “i fondatori dell’umanità: Licurghi, Soloni, Maometti” che devono inseguire il sogno di epurare il genere umano da tutti coloro che costituirebbero un’intimidatoria minaccia per la sua sopravvivenza.
Per Raskol’nikov, quindi, gli uomini si suddividono in due grandi categorie: coloro che, come un gregge, si rassegnano alla grossolana obbedienza e coloro che arrecano in sé il rigoglioso splendore della volontà di cambiamento, della libertà nella forma più pura che esista, della rivoluzione percepita come il punto di partenza per protendersi sempre di più verso l’assoluto benessere dell’umanità. Essi non si lasciano ottundere dalla pressione squallida delle leggi, al contrario hanno il diritto di infrangere queste ultime. È l’etica perversa degli atei, dei nichilisti, dei miscredenti, dei sovversivi, di coloro che deificano la ragione. Per loro l’intelletto predomina sulla morale, nelle acque dell’anima non naviga l’amore, ma solo la fredda zattera del raziocinio che tiranneggia su ogni cosa.
‹‹Se avessi voluto aspettare che tutti fossero diventati intelligenti, sarebbe passato troppo tempo… Poi ho capito anche che questo momento non sarebbe arrivato mai, che gli uomini non cambieranno mai e che nessuno riuscirà a trasformarli e che tentar di migliorarli sarebbe fatica sprecata!››
Il protagonista di “Delitto e castigo” si culla nell’illusione di appartenere al gruppo dei dominatori, di conservare in sé il germoglio del superuomo nietzschiano, le cui azioni si pongono al di là di ogni consueto meccanismo terreno, “al di là del bene e del male”. Raskol’nikov è solo l’evoluzione dell’uomo di “Memorie dal sottosuolo”, immerso anch’egli nel laido sudiciume dell’abisso di se stesso.
Eppure, a seguito di quell’assassinio tanto agognato, Raskol’nikov avverte l’insostenibile peso della morale, del senso di colpa che incombe su di lui e in lui si fa strada, assumendo le inquietanti sembianze di una sordida e forsennata ossessione. La sagoma del giudice inquisitore della coscienza si staglia sul palcoscenico, facendo affiorare la macabra consapevolezza del fatto che l’omicidio commesso non fosse nient’altro che un esperimento per comprovare l’essenza goliardica, ribelle, “napoleonica” dello studente di legge e non un atto che appurasse la sua intrinseca superiorità.
L’analisi freudiana, tipica dei romanzi dostoevskijiani, galoppa anche nelle pagine di “Delitto e castigo”. Grazie all’incontro con Sonja, giovane donna che si guadagna da vivere prostituendosi, Raskol’nikov espia le proprie colpe, riconosce che la commissione di un delitto sia un gesto riprovevole, nefando, inumano, seppur non metta mai in dubbio la nobiltà dell’idea che aveva ispirato il crimine.
In “Delitto e castigo”, Dostoevskij denuda l’uomo, defraudandolo di ogni difesa. L’uomo non è più il superbo eroe napoleonico, il paladino della giustizia, il salvatore del mondo, al contrario è un essere misero su cui alita il fantasma della vergogna e del senso di colpa.
Raskol’nikov riscatta il proprio misfatto attraverso il dono della croce di Sonja che fa luce proprio sulla sconfitta del titanismo intrepido e della filosofia superba del superuomo, che ripudia il miraggio stordente della libertà assoluta che, al contrario, non è altro che negazione della libertà stessa e annullamento della volontà.
Ed ecco che l’inesorabile destino dell’uomo si profila come un’eterna ed incrollabile sofferenza.
‹‹A volte l’uomo è straordinariamente, appassionatamente innamorato della sofferenza.››
Clara Letizia Riccio