Pornografia femminista: liberazione delle soggettività e dell'eros
Scena dal film "Rico Rico" di Maximus Skaff, 2021 (xconfessions.com).

Era il 1968 quando le donne scoprirono di non essere solo oggetto della sessualità ma anche soggetti desideranti, non più angelo del focolare domestico dedito alla cura e al soddisfacimento dei bisogni della propria famiglia, ma soggettività capaci d’autodeterminarsi anche nella dimensione erotica, lontane dallo sguardo maschile. Gli anni della rivoluzione sessuale furono incentrati sulla liberazione della donna (dalle lotte per la contraccezione, a quelle per l’aborto sicuro) e dell’eros quale forza motrice svincolata dall’imperativo alla riproduzione sociale in una cornice etero-normativa ben definita. Il piacere diviene ciò move il sole e l’altre stelle, un elemento rivoluzionario in grado di scardinare l’ordine sociale, di liberare tutte le soggettività dalle catene costruite dal potere patriarcale: le donne intraprendono un percorso d’emancipazione nella sfera personale e in quella sociale e politica.

È qui che si colloca la cosiddetta Golden Age of Porn in cui la produzione e la distribuzione di materiale pornografico, grazie al sommovimento culturale, diviene un’industria di massa destinata a crescere negli anni a venire. Fra i primi lungometraggi vi sono Mona del 1970 e Deep Throat del 1972, che come afferma Valentine aka Fluida Wolf nel suo libro Postporno, erano «un prodotto degli uomini per gli uomini», insieme al magazine Playboy, emblema di una donna-merce oggettificata in funzione del male gaze.

Pioniera di una pornografia di segno opposto è Annie Sprinkle, femminista e regista di Deep Inside Annie Sprinkle del 1982. Valentine aka Fluida Wolf afferma in proposito: «La svolta è epocale: non solo questa volta dietro alla telecamera c’è una donna, ma la rappresentazione del femminile che viene data non è più quella della docile brava ragazza asservita al maschio di turno che deve essere posseduta». La sua filmografia, insieme alle sue innovative performance artistiche, sono «il passaggio dalla produzione di un porno mainstream a quella di un porno connotato politicamente e con obiettivi di impatto/cambiamento sociale», scrive Rachele Borghi nel suo “Postporno. Questo porno che non è un porno“.

Vedono la luce, dunque, un filone di filmografia pornografica che sfrutta il movimento di liberazione sessuale tentando di ingabbiare ancora una volta le donne, e un altro – realmente affine al clima culturale di contestazione – ripreso negli ultimi anni dalla pornografia femminista.

Cosa rende un porno femminista?

Delicate lenzuola di seta, tessuti rosa ornati di pizzo, smielato romanticismo: nulla di tutto ciò che viene stereotipicamente e, dunque erroneamente, ricondotto all’immaginario femminile fa sì che un porno sia definibile femminista. Al centro della pornografia femminista vi sono il rispetto reciproco e l’autodeterminazione delle soggettività che vi prendono parte. Dunque, non si tratta di un prodotto destinato esclusivamente alle donne, ciò che lo differenzia dalla filmografia mainstream è il passaggio da una figura femminile spesso oggettificata e passiva, a una figura multidimensionale e attiva, di cui emerge la volontarietà e il particolare punto di vista.

pornografia femminista
Erika Lust

Irene Graziosi in un’intervista rilasciata per VICE dalla pluripremiata regista Erika Lust – fondatrice di Erika Lust Films, debuttante nel 2004 con The Good Girl, fra le protagoniste della nuova cinematografia indie per adulti – sottolinea che «giusto e sbagliato [per quanto attiene alle scene da mostrare nei suoi film] non esistono, basta che per quella donna [una data scena] sia eccitante». Nella pornografia femminista il set diviene un ambiente di sperimentazione e di pura scoperta dell’eros; vengono portate in scena dalle pratiche più comuni a quelle considerate più inconsuete o ancora dei tabù (pegging, fisting, rimming, BDSM, bondage, ne sono degli esempi). Infatti, «il sesso serve a molte persone per esplorare situazioni o parti di sé che non esplorerebbero altrimenti. Alcune donne che nella vita quotidiana si sentono forti e indipendenti magari si sentono eccitate dall’opposto, perché dà loro la sensazione di avere infranto le regole, […] vuol dire che è un essere umano e ha dei desideri» – afferma Erika Lust.

Emblematico è il progetto XConfessions, nato nel 2013, in cui Erika Lust insieme ad altre registe a lei affini, trasformano in film le fantasie erotiche che sono loro sottoposte anonimamente, fatta eccezione per le scene di abusi, forme di coercizione non consensuale e di pedofilia. XConfessions mostra quanto variegato possa essere l’eros, ben lontano dalla rappresentazione bidimensionale mainstream: sono numerosi i corti che hanno per protagoniste persone transgender, BIPOC, queer, poliamorose. Può, dunque, la pornografia femminista riflettere i desideri – anche quelli spesso stigmatizzati o invisibilizzati – di un dato contesto storico e rimarcarne così la multiforme composizione sociale?

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fonte: (xconfessions.com)

Il sex work ha la «potenzialità di rivoluzionare e sovvertire immaginari e modelli culturali egemonici» – scrive Giulia Zollino, educatrice sessuale e autrice di Sex work is work. Questo perché al centro vi è « la donna che sfida l’assetto culturale patriarcale che la vorrebbe passiva. […] Distrugge la sacralità del corpo e della sessualità femminile, irrompe fisicamente e simbolicamente nello spazio pubblico».

Pornografia femminista diviene sinonimo di rappresentazione del desiderio delle donne e di tutte le soggettività marginalizzate dal sistema patriarcale. L’occhio che muove la macchina da presa cambia, non è più quello paradigmatico dell’uomo eterosessuale teso a consolidare una visione patriarcale e statica del ruolo della donna, e anche di una mascolinità stereotipica che arriva a normalizzare la violenza sessuale. Olympe De G., femminista e regista francese, afferma che «il porno femminista consente alle donne di creare uno spazio in cui esprimere la propria definizione di “eccitante”: come vogliono essere toccate, come vogliono esibire il proprio corpo». Di conseguenza, muta anche la rappresentazione della figura maschile, non più solamente dominante e aggressiva, ma capace di esternare un variegato carosello di emozioni, al fine di dare una connotazione positiva al rapporto sessuale e al relazionarsi reciproco, indipendentemente dal tipo di performance portate avanti dalle sex workers.

Pornografia femminista: workers’ rights, etica ed estetica

Consenso e safe space sono le parole d’ordine della pornografia femminista: «gli uomini e le donne vengono trattati come collaboratori al sesso, non come oggetti o macchine. I film promuovono l’eguaglianza e la lotta agli stereotipi, che fanno male tanto alle donne quanto agli uomini» – afferma Erika Lust. La casa di produzione Lust segue un’etica ben precisa durante la realizzazione dei suoi film, in conformità al “Bill of rights” da loro stilato e destinato al cast e alla troupe. Vengono, dunque, garantite eque retribuzioni, spazi di reciprocità e di condivisione del piacere, diversità nella rappresentazione delle soggettività, rapporti sessuali sicuri e rispetto per i bisogni fisiologici delle sex workers (ad esempio la necessità di riposarsi dopo alcune scene). Inoltre, le scene da girare sono sempre discusse e pianificate anticipatamente insieme al cast, al fine di tenere conto dei limiti personali degli attori e del loro consenso.

Punto focale per questo tipo di pornografia femminista è lo studio della fotografia, dalla scelta dei cromatismi da risaltare, all’attenzione per l’illuminazione dei corpi e delle ambientazioni. Ogni pellicola è contrassegnata da un’estetica frutto di una costante ricerca registica. La corporeità diviene il medium di un processo di significazione artistica, anche in contrasto agli standard estetici dominanti ed escludenti. A tal proposito, afferma Erika Lust: «unire porno e arte è molto importante per me, voglio dimostrare che non sono cose che si escludono a vicenda».

Al contempo, vi è chi come l’autrice Sofia Torre, muove delle critiche proprio a questo genere di pornografia che mira a diventare fine art, in quanto finirebbe per dare una visione eccessivamente patinata del sesso, «dove la visceralità del corpo e dei suoi istinti sembra anestetizzata» con il rischio, di contravvenire a quel proposito di liberazione dell’eros e della corporeità per come realmente appare nella sua espressione più istintuale, e di realizzare un prodotto perfettamente digeribile e vendibile su larga scala. Ad Erika Lust, viene contrapposta Dana Vespoli e il suo Dana Vespoli’s Sex Diaries, che non compie un esercizio di stile e di ricerca del bello, ma dà spazio a un’autenticità che, in quanto tale può anche essere brutale e grottesca e dunque, forse, tracciare il solco per una pura liberazione dell’eros.

Celeste Ferrigno

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