Fino al 3 dicembre sarà possibile visitare la mostra di Hirst a Venezia, Treasures from the Wreck of the Unbelievable.
Treasures si articola in due parti, un allestimento a Punta della Dogana e uno a Palazzo Grassi. È l’occasione per il pubblico italiano di ammirare Hirst sul proprio territorio, ma è anche l’occasione per Hirst di riconquistare il favore della critica che sembra averlo abbandonato negli ultimi anni, specialmente quando l’artista inglese, conosciuto per le sue sculture e le sue installazioni, si è dedicato alla pittura figurativa. Dal giudizio semplicemente negativo di Adrian Searle, il quale si limita a notare come i dipinti di Hirst non possano reggere il confronto con quelli di Bacon, modello stilistico di riferimento, alla caustica stroncatura di Jonathan Jones, che in questa recensione scriveva: “parole come rigido, pretenzioso, rozzo, vuoto non rendono giustizia alle nature morte di Hirst. Sono tutte appropriate, ma nessuna riesce a catturare la portata del fallimento di cui stiamo parlando. Quando si tratta di pittura figurativa, il talento di Hirst è pari a zero”.
Con Treasures, però, Hirst torna sui suoi passi e, dopo i fiaschi figurativi, si ripropone come grande artista concettuale, attingendo alle tecniche e ai temi che lo hanno fatto apprezzare dai tempi degli Young British Artists. E così in questa mostra convergono la fascinazione per il mondo marino (risalente allo squalo tigre di The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living del 1991 e a Death Denied del 2008) che fa da sfondo all’intera esposizione (non sarà un caso che da Punta della Dogana, fuori dalla finestra ciò che si vede è proprio l’acqua di Venezia), la cultura “pop” (non manca Mickey Mouse incrostato di corallo) e i teschi (i quali non hanno abbandonato Hirst nemmeno nella sua parentesi pittorica). Un’altra evidente passione di Hirst, che a qualcuno ha ricordato Borges, è quella per la mistificazione.
“Somewhere between lies and truth lies the truth”. Questa è la scritta che accoglie i visitatori del museo di Punta della Dogana e l’ambigutà di questa frase imposta il tono di tutta l’esibizione. Secondo la guida cartacea, infatti, i Treasures sarebbero opere appartenenti ad un liberto di antiochia, Cif Amotan II, che, conquistata la libertà, avrebbe accumulato “una sontuosa collezione di oggetti provenienti da ogni angolo del mondo antico”. Come continua a spiegare la guida, “I leggendari cento tesori del liberto – oggetti commissionati, copie, falsi, acquisti e bottini – furono caricati tutti insieme sulla gigantesca nave Apistos (nome che nell’antica koiné greca significava Incredibile) per essere trasportati in un tempio appositamente edificato dal collezionista. Ma l’imbarcazione affondò, consegnando il proprio tesoro alla sfera del mito e generando così infinite varianti di questa storia d’ambizione, avarizia, splendore e ubris.”
Il visitatore si troverebbe, dunque, di fronte alle sculture dell’imbarcazione (appunto i Treasures dell’Unbelievable, l’Apistos) “salvate” dagli abissi da una spedizione propiziata dallo stesso Hirst, spedizione della quale, a Palazzo Grassi, sono disponibili documenti video. Come appare subito chiaro, tutte le opere sono in realtà prodotte da Hirst, ma questa invenzione consente all’artista di osare connubi al limite del kitsch, eppure suggestivi, come una statua in cui la dea Kālī si trova di fronte all’idra di Lerna. Una molteplicità di braccia a contrastare una molteplicità di teste. Eppure, Hirst offre al visitatore indizi con i quali scardinare la stessa finzione da lui messa in piedi: e così tra i tesori rinvenuti troviamo una scultura di Mickey Mouse o una Dea Ishtar il cui volto ricorda la compagna dell’artista, la modella Katie Keight.
Si è fatto il nome di Borges, eppure una mostra di una tale imponenza (chi, dopo aver visitato Punta della Dogana e aver visto la simil-piedra del sol pensasse di non potersi più stupire, dovrà ricredersi davanti a “Demon with Bowl”, scultura di resina dipinta che supera i diciotto metri, posta all’ingresso di Palazzo Grassi) difficilmente fa pensare ai racconti di Borges, maestro della poesia e della narrativa breve (come del resto un artista con un talento per attirare l’attenzione come Hirst non potrebbe trovarsi più lontano dal temperamento leopardiano del timido Borges).
Ricorda più l’opera di un grande ammiratore di Borges, quel Roberto Bolaño autore di 2666. In questo romanzo composto di quattro parti, Bolaño mette in moto diverse vite in qualche modo in contatto con l’opera di un misterioso scrittore tedesco, Benno von Archimboldi. Bolaño non solo inventa lo scrittore, ma ne fornisce una dettagliata biografia, un’estesa bibliografia e lo attornia di critici, uno dei quali è il germanista Piero Morini, il cui nome ricorda Angelo Morino, nella realtà traduttore e insegnante di letteratura ispanoamericana all’Università di Torino. Questo giocare tra falsificazione e realtà è sicuramente presente in “Treasures from the Wreck of the Unbelievable”, che è forse una delle proposte più coraggiose di questo artista fino ad oggi. Coraggiosa perché nella sua sfacciata opulenza, flirtando con il kitsch, si espone al ridicolo, a nuove e forse definitive stroncature, ma è, qualsiasi cosa se ne pensi una volta usciti, una delle mostre da vedere di quest’anno.
Luca Ventura