Pierpaolo Capovilla, suoni pindarici per un teatro di scena
Fonte: La Tempesta Dischi

Fondatore, cantante ed ideologo di uno dei complessi musicali seminali degli anni Zero, Il Teatro degli Orrori, Pierpaolo Capovilla pubblica con loro quattro album in studio destinati a lasciare il segno nell’ambito del cantautorato alternative rock più impegnato, rigorosamente svincolato da ogni logica di compromesso, accompagnandoci per mano nell’incubo sociale in cui versano i nostri tempi.

Nell’arco della sua esperienza artistica, marchiata a fuoco da un’urgenza espressiva non comune, sono certamente distinguibili le liriche mordaci, la devozione per le incessanti cavalcate di onde sonore potenti, la teatralità enfatica e sofferta, l’amore per la poesia e la drammaturgia russe, ma anche la passione civile, sempre polemicamente ribadita nei concerti e negli incontri pubblici, che convivono efficacemente in brani dal notevole impatto estetico ed emotivo.

Al di là dell’incommensurabile inclinazione per l’arte che lo ha reso celebre ai più, Pierpaolo Capovilla non ha mai nascosto la sua viva affezione per la letteratura, soprattutto i lirici del Novecento, passione che lo spinge a cimentarsi prima con Majakovskij in una lunga tournée di reading e, di seguito, alla lettura pubblica di componimenti letterari pasoliniani, incentrati sul poema “La religione del mio tempo”.

Confrontarsi in intervista con Pierpaolo Capovilla, vuoi per il suo eloquio travolgente come un fiume in piena, vuoi per altro, non è stato semplice; averlo avuto come interlocutore è stato senza dubbio, sotto ogni punto di vista, corroborante. Spero vivamente che le righe che seguono infondano, in chi le leggerà, gli stessi stimoli trasmessi.

Ciao Pierpaolo, è un piacere averti come ospite ai microfoni di Libero Pensiero. Che ne dici se partiamo da un tuo personale parere riguardo il connubio musica-letteratura?

«Le canzoni sono letteratura. Le nostre non saranno letteratura di chissà quale pregio, ma sono letteratura. Cerco di raccontare – parlo di me perché non sono solo Il Teatro degli Orrori, ma scrivo anche per altri autori – il consorzio umano che ho attorno. La mia vita è così perché vivo in questa società qui. Se non esponessi le ingiustizie, le disuguaglianze, le prevaricazioni, riporterei il nulla assoluto.»

Il Mondo Nuovo” è l’apice della musica de Il Teatro degli Orrori che dà voce alle storie del popolo, tant’è che il primo titolo, poi scartato per pudore, doveva essere “Storia di un immigrato”, parafrasando la celebre “Storia di un impiegato” di De André. Cos’è che vi spinge a trattare tematiche tanto impegnative?

«Raccontiamo il mondo. Proferiamo quanto ci circonda, avendo un occhio critico e costruttivo sulla realtà tangibile: si parte dal particolare per riuscire a narrare – per lo meno ci si prova – l’universale. Partiamo da storie minute, minime, per poter parlare della collettività. Ognuno di noi contiene al suo interno un mondo intero inesplorato. È assolutamente d’obbligo che il privato diventi pubblico, che il privato sia non solo pubblico, ma politico.»

Nell’ordinarietà dell’uomo occidentale medio, Dio è come se fosse stato dimenticato. Il Teatro degli Orrori, per rappresaglia, lo ricorda in molti testi. Cos’è l’Essere supremo, concepito come perfettissimo, eterno, creatore e regolatore dell’Universo di cui parlate?

«La nostra è una cultura cristiana cattolica, siamo permeati dalle tradizioni e dai credo, anche se la cosa potrebbe non andarci a genio. L’insegnamento religioso ha un’anima positiva, porta cambiamento e miglioramento nella vita delle persone. Che poi l’uomo abbia usufruito di tutto ciò in malo modo, rovinandolo, non è certo volere di un’entità superiore.»

Oltre che con le parole, voi comunicate con l’energia con cui esplodete (assistere ad un live de Il Teatro degli Orrori è un’esperienza altamente consigliata, che smuove dentro). Riuscite a trasmettere la stessa forza con le code strumentali, che lasciate spesso parlare da sole. Cosa vi attiva?

«Il credere profondamente in quanto facciamo. Dal vivo si mette in moto tutto: quello che è il pensiero di Gionata Mirai, Giulio Ragno Favero, Francesco Valente, Kole Laca, Marcello Mattia Battelli e Pierpaolo Capovilla si fa carne e sangue, per cui diventiamo la musica che suoniamo. Questo, unito all’amore per la gente che ci segue, crea delle situazioni in c’è uno scambio fortissimo tra noi e il pubblico, ci si autoalimenta reciprocamente. Siamo teatro di scena, non teatro di prosa: abbiamo appreso la lezione artaudiana.»

Vincenzo Nicoletti

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