Italia, landa desolata della precarietà, deserto della disoccupazione. I sottili granelli di sabbia sollevati dal vento del cambiamento veleggiano sparuti sotto il torrido clima di campagna elettorale. Tutto intorno, un silenzio di piombo ammutolisce l’acqua delle fontanelle di incentivi pubblici, le porte girevoli del saloon del Parlamento e l’ombra dei porticati sotto cui sonnecchiano i pensionati d’oro.

È mezzogiorno, l’ora del fuoco, quando la banda di Susy C., temibile pistolera dagli occhi di ghiaccio, la sindacalista più temuta del Mediterraneo, assalta la carovana delle Larghe Intese sparando ad alzo zero contro lo scagnozzo Paul Etty, detto “Linguastorta” per la sua capacità di dire cretinate ogni volta che apre bocca, e lo costringe alla resa.

Il bottino è ricco: centinaia di sacchi belli gonfi di voucher vengono sottratti ai malcapitati tra urla e minacce, i carri privati delle ruote, i sottosegretari disarcionati, i cavalli dispersi. Mentre Paul Etty viene legato come un salame ed appeso ad una trave traballante, Susy C. lo guarda beffarda e con voce artica gli sussurra “Goditi il tuo nuovo posto fisso”. Poi scompare nel nulla sulla linea dell’orizzonte, mentre già sembra calare la notte.

Il brainch della domenica

Cari lettori: per un pugno di voucher, verrebbe da dire. Dopo aver fissato al 28 maggio la data del referendum, il Governo ha immediatamente alzato bandiera bianca ed emanato un decreto, che adesso dovrà essere recepito dal Parlamento, con cui di fatto si accettano le condizioni poste dai quesiti referendari.

Di cosa si tratta? Dell’abolizione totale dei voucher, i buoni-lavoro da 7,50 euro netti, e del ripristino della solidarietà tra appaltatore ed appaltante. Due punti nevralgici del Jobs Act su cui adesso si dovrà giocoforza tornare a discutere. Una vittoria fin troppo facile per la CGIL, che si era fatta promotrice del referendum, ed una dimostrazione di debolezza da parte del Governo che non è piaciuta molto a Confindustria.

Ma facciamo un po’ di chiarezza. Gli odiosi voucher nascono nel 2003 con la Legge Biagi, che ne regolamentava l’utilizzo solo in alcuni campi, per entrare in vigore qualche anno dopo ed essere poi estesi fino a diventare strumento universale di retribuzione del lavoro occasionale sotto i Governi Monti, Letta e Renzi.

Che qualcosa non funzionasse, però, l’avevano capito tutti: invece di far emergere il lavoro nero, i voucher hanno finito per precarizzare posizioni lavorative prima stabili, erodendo le occasioni di impiego e mortificando le velleità occupazionali di moltissimi under 35 in interi settori, specialmente del terziario.

Non è un caso che ad utilizzarli di più, come si evince dalla “classifica” stilata dall’INPS, siano aziende della ristorazione come McDonald’s e Cigierre, del lusso come Stroili e Dip, dei servizi come Manpower e Adecco, e perfino i Comuni. Insomma, non dove tradizionalmente si annida il lavoro nero, ma in quelle multinazionali che non aspettavano altro che di poter abbattere i costi della manodopera pescando a piene mani dal vasto bacino di lavoratori sfruttati, sottopagati, privi di reddito o di tutele.

Abolire i voucher (in modo graduale, fino al 2018 quando scompariranno del tutto) ha un duplice significato: da un lato evitare il referendum – con il risparmio di circa 300 milioni che ne deriva – ed i rischi politici di una nuova sconfitta a pochi mesi dalle prossime elezioni; dall’altro, costringere ad un ripensamento profondo delle norme che regolano il lavoro.

Pur valendo neppure l’1% del mercato del lavoro, infatti, i voucher rappresentano “la nuova frontiera del precariato”, come dichiarato dal presidente dell’INPS Tito Boeri. Le statistiche spaventano: in otto anni il loro utilizzo è aumentato di 250 volte, sostituendo perlopiù il lavoro stabile e il lavoro precario. Chi prima lavorava in nero, insomma, lavora in nero anche adesso… e chi l’avrebbe mai detto.

È il volto tetro dell’Italia sempre più simile a un far west senza regole. L’oscura narrazione liberista che immagina tassazioni agevolate per attirare ricconi dall’estero mentre 5 milioni di persone vivono in condizioni di povertà assoluta. La follia disumana che spinge nel baratro della disperazione intere generazioni e striscia ai piedi dei ceti abbienti per elemosinare consenso e potere.

La battaglia per i diritti universali dei lavoratori, dunque, non può arrestarsi qui, ed ha bisogno di tutta la partecipazione popolare possibile verso l’unico compromesso socialmente accettabile: l’equa distribuzione della ricchezza.

Comunque, mi sarebbe piaciuto retribuire almeno i ministri con i voucher; pazienza. Buona domenica, lettori cari.

Emanuele Tanzilli
@EmaTanzilli

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2 Commenti

  1. Articolo a dir poco imbarazzante e palesemente scritto per il piacere dell’autore. Nessuna statistica e argomento vero a supporto della tesi esposta, ma solamente allusioni demagogiche. Prima di citare società di quel calibro, che creano posti di lavoro investendo e rischiando, bisognerebbe avere almeno un filo di cognizione di causa e non idee e preconcetti alquanto datati e arcaici…

    • Gentile Gianluca, può trovare gli stessi dati su Repubblica e il Manifesto – due quotidiani non propriamente allineati fra di loro. Quanto alle aziende citate, sono riportate nella classifica che l’INPS ha consegnato alla CGIL, e non ho remore a confermare quanto scritto. Mi spiace che lei si sia sentito imbarazzato, ma le posso assicurare che i lavoratori di quelle aziende si sentono molto peggio.

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