La prima e unica opera letteraria dello scrittore francese Joseph Ponthus, dal titolo «Alla Linea. Fogli di fabbrica», ha incarnato un vero e proprio inaspettato caso di successo editoriale nell’arco di pochissimi mesi dalla sua pubblicazione in Francia tramite la casa editrice Table Ronde nel 2019: diverse ristampe, miriadi di copie vendute, tradotto in dieci lingue straniere e svariati premi letterari. Addirittura lo scrittore Alberto Prunetti nella sua opera «Non è un pranzo di gala. Indagine sulla letteratura working class» narra di un aneddoto secondo cui Daniel Pennac, fermato per strada da un ammiratore, si allontanerebbe sventolando il libro di Joseph Ponthus e, nel frattempo, dicendo: «io sono vecchio, dovete leggere Ponthus!».
Così Joseph Ponthus – pseudonimo di Baptiste Cornet, purtroppo morto prematuramente nel 2021 all’età di quarantadue anni – ha dato vita a un capolavoro di letteratura working class trasponendo crudamente su carta, senza eroismi, le proprie esperienze di vita. Così letteratura ed esistenza si compenetrano al punto di divenire un unico e travolgente flusso nel solco d’un romanzo-poesia autobiografico, in bilico tra orrore e stupore, che narra dell’esistenza in fabbrica in quanto limbo fisico e spirituale tra miseria, consunzione, disancoramento e dilatazione angosciosa e irreale del tempo.
Alla Linea è, dunque, un’opera rapsodica che testimonia attraverso le parole di un giovane proletario colto sia la violenza che il corpo e la mente subiscono per via del lavoro in fabbrica, sia la stringente necessità di resistere quotidianamente all’abbrutimento personale che inevitabilmente ne deriva, mediante la poesia, mediante un inesauribile amore ricolmo di passionalità, di speranza e mediante la costante e salvifica ricerca del bello tra le pieghe di una disumanizzante realtà industriale fatta di automatismi e di alienazione.
«E ora, in che cosa consiste l’alienazione del lavoro? Consiste prima di tutto nel fatto che il lavoro è esterno all’operaio, cioè non appartiene al suo essere, e quindi nel suo lavoro egli non si afferma, ma si nega, si sente non soddisfatto, ma infelice, non sviluppa una libera energia fisica e spirituale, ma sfinisce il suo corpo e distrugge il suo spirito. Perciò l’operaio solo fuori del lavoro sì sente presso di sé; e si sente fuori di sé nel lavoro. E a casa propria se non lavora; e se lavora non è a casa propria. Il suo lavoro quindi non è volontario, ma costretto, è un lavoro forzato. […] La sua estraneità si rivela chiaramente nel fatto che non appena vien meno la coazione fisica o qualsiasi altra coazione, il lavoro viene fuggito come la peste. […] il lavoro in cui l’uomo si aliena, è un lavoro di sacrificio di se stessi, di mortificazione». (K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844).
Alla Linea di Joseph Ponthus: «La fabbrica mi ha fottuto»
Joseph Ponthus in Alla Linea cerca costantemente di disvelare con il suo sguardo e le sue parole la verità sul tempo in fabbrica, sullo sfibrante corpo a corpo con le macchine e con il disagio esistenziale. Vivifica, senza cpompatimenti, lo spazio degradante della fabbrica dove si consumano i turni di lavoro della working class cercando di restituire finanche quanto di comune v’è tra la condizione d’ogni lavoratrice e d’ogni lavoratore. In virtù di ciò, traccia, per l’appunto, una linea di congiunzione tra la figura dello scrittore e quella dell’operaio ma anche una linea di demarcazione tra una gravosa temporalità vissuta in fabbrica e una parallela temporalità liberata dal lavoro fatta di riposo, di cura di sé e dell’altro. Lo scrittore francese abbandona il proprio lavoro d’educatore nelle banlieue parigine per trasferirsi in Bretagna, pur di vivere assieme alla moglie Krystel, e cominciare da lavoratore interinale per due anni circa a sgobbare inizialmente in uno stabilimento ittico e successivamente in un mattatoio.
Difatti, il testo di Alla Linea procede giorno dopo giorno, notte dopo notte, turno dopo turno, al ritmo del prosimetro – misto di prosa e poesia in verso libero – senza punteggiatura e con un andamento frammentato che ricalca i ritmi massacranti della linea di produzione che prevede la coercitiva sparizione di ogni tentennamento, di ogni pausa. Ogni pensiero e azione soggiace a un tempo incalzante e prestabilito, di conseguenza tutto si segmenta e si sgretola in una incessante frenesia stroboscopica.
Riprendendo lo stesso Joseph Ponthus: «Scrivo come lavoro / Alla catena / Alla linea e sulla linea a capo». Rimarcando l’assurdità del lavoro, la precarietà e la mercificazione della forza-lavoro umana e non-umana, lo scrittore offre in tal modo un punto di vista di totale adesione all’esperienza in fabbrica. In Alla Linea, perciò, vengono decritti – attraverso uno stile lirico, folgorante, erratico e ironico – con minuziosità la ripetitività meccanica di ogni gesto in seno alla catena di montaggio, il fragore, la vacuità, i liquami, il sangue umano e animale, la stanchezza sconfinata, la desolante solitudine, i sogni infranti, l’anima inghiottita dalla fabbrica e, infine, i bagliori d’umanità e di solidarietà comune, nonostante tutto, che si manifestano proprio in quella temporalità sottratta allo sfruttamento e all’oppressione.
«In fabbrica canti / Cazzo se canti / Canticchi mentalmente / Urli a squarciagola coperto dal rumore delle macchine / […] è il più bel passatempo che ci sia / E ti aiuta a resistere / […] Quei momenti in cui è così indicibile che non hai neanche il tempo di cantare / Solo di vedere la catena che avanza senza fine l’angoscia che sale l’ineluttabile della macchina e dover continuare a tutti i costi la produzione». Viene delineato il ritratto inquietante d’un lavoro spettrale, innervato di logiche schiavili e impersonali, profondamente indifferente alle singole esistenze degli appartenenti alla working class che lo originano, lo attraversano umiliandosi e annichilendosi sino all’esalazione dell’ultimo respiro, perpetuandone la sua stessa raison d’être. L’autore e gli altri lavoratori sono ridotti a meri automi: la loro esistenza è una stremante rincorsa, una illusoria ascesa verso qualcosa di fosco che persisterebbe in immaginifici interstizi fra rigidi regolamenti, prassi inflessibili, doveri inderogabili, debiti e malattie.
Dalle parole di Ponthus, così, emerge con dirompenza una domanda quantomai necessaria, che potenzialmente potrebbe smascherare la spietata natura classista e anti-umana del modello produttivo attuale: la working class è, quindi, soltanto un mezzo per generare e massimizzare i profitti dei padroni a costo della vita stessa?
«Sognando Itaca / Nonostante la merda»: la letteratura come arma contro l’alienazione capitalistica
Dunque, nel solco dei molteplici rimandi letterari all’interno dell’opera e, in particolar modo, in riferimento alle parole del poeta Apollinaire: «È incredibile tutto quello che riusciamo a sopportare»; è evidente che in Alla Linea la letteratura sia un potentissimo strumento di trasformazione di sé e del circostante, di lotta e di salvezza in contrapposizione alla divorante alienazione capitalistica, al capillare e ricattatorio controllo del tempo e dei corpi della working class e alla esiziale menzogna lavorista secondo cui il lavoro debba essere anelito e fine ultimo dell’intera esistenza umana.
Alla Linea è necessariamente anche un’opera dallo spessore politico giacché mostra e denuncia la brutale realtà del lavoro interinale, ossia le inique condizioni di vita di quel nuovo esercito industriale di riserva soggiogato e iper-sfruttato dal capitalismo, di una working class la cui coscienza di classe si è ormai frammentata a causa della ferocia del mercato e, quindi, del moltiplicarsi di tipologie di contratti capestro al ribasso in un drammatico contesto di darwinismo sociale e di scriteriata deregulation economica. Nelle fabbriche in cui l’autore viene indirizzato, gli interinali sono l’invisibile prole di una forza-lavoro spoliata, senza la possibilità di rifiutare un impiego, di partecipare a uno sciopero, di declinare l’offerta di svolgere lavori straordinari, pena il non venire più richiamati al lavoro, pena il non poter più sopravvivere.
In un momento storico di progressivo restringimento delle libertà personali e socio-politiche; Joseph Ponthus parte dal proprio sé, dalla propria esperienza, e se ne distacca al fine di rivolgersi a quante più persone possibile, all’umanità tutta, trasponendo il soggettivo nell’oggettivo attraverso la letteratura, attraverso un indomabile afflato emancipatorio. Per fare ciò si rivela imprescindibile esperire visceralmente il proprio vissuto, distanziarsi dal dolore stesso e dargli una forma nuova, lottando senza tregua e sognando Itaca.
Joseph Ponthus, seppur non abbia scritto un pamphlet rivoluzionario, è riuscito a dar vita a un radicale resoconto generazionale e totalizzante dove non sussiste più distinzione alcuna tra chi lavora e chi scrive sulla working class, dove crolla definitivamente il divario tra il reale e chi ne scrive, dove si dissolve la velleità di ghermire con la penna – riducendosi a mero esercizio di stile – un esistente che inesausto forgia la vita stessa con il martello. Ed è proprio per questo motivo che l’opera dello scrittore francese rispecchia inesorabilmente i versi di Majakovskij: «L’arte non è uno specchio per riflettere il mondo, ma un martello per forgiarlo».
Gianmario Sabini