Avrete certamente sentito parlare di Parasite, vincitore, un po’ a sorpresa, di ben quattro statuette d’oro agli Oscar 2020, e avrete anche compreso che in qualche modo c’entra la lotta di classe. Vi sarà senz’altro capitato di leggere o di sentire che la pellicola è diretta, recitata e presentata magistralmente, e che sfugge ai canoni e agli stilemi dei generi cinematografici classici. Qualora servissero ulteriori ragioni per considerare l’ultima fatica del prolifico cinema sud-coreano sia un capolavoro della settima arte sia un contributo prezioso al dibattito politico contemporaneo, proveremo a scendere nel dettaglio.
Dentro Parasite…
Innanzitutto, Parasite è un trionfo del medium cinematografico, un gioiello estetico e narrativo di rara fattura, una sublime performance corale. Concepito inizialmente come pièce teatrale, riesce a raccontare, in circa 120 minuti, un intreccio complesso ma fruibile. È questa l’antinomia fondativa che Bong Joon-Ho (regista, produttore e sceneggiatore) e Han Jin-Won (co-sceneggiatore) hanno sapientemente edificato per dare forma al loro capolavoro.
Un ritmo posato ma incalzante, quasi frenetico ma mai convulso, muove la macchina da presa, alla quale viene lasciata libera espressività da una concezione spaziale ariosa, che partorisce un susseguirsi di inquadrature asciutte e sintetiche ma sofisticate. La costruzione scenografica e fotografica, nel suo minimalismo, trasuda densità, ricercatezza semiotica e carisma tali da richiedere riflessioni ad hoc. Un variegato e operoso cast incarna con sapienza e coralità personaggi vibranti ed espressivi, parte di un universo coerente ed onnicomprensivo, tra il realismo e la pop-culture asiatica, caratterizzati attraverso rapide ma risolute pennellate.
La perizia e i virtuosismi delle inquadrature, del montaggio e di tutte le trovate estetiche, umoristiche e simboliche sono dispositivi tecnici che accompagnano con prontezza, efficacia ed intelligenza l’intricato canovaccio narrativo della sceneggiatura. Una complessità comunque mai ostentata, gravosa o pedante, che ammalia e coinvolge ogni tipologia di pubblico per la sua leggerezza, il suo brio e soprattutto per la sua stratificazione.
Una potentissima narrazione visiva che, rifuggendo ogni classificazione rigida, non si qualifica né come thriller né come dramma né come commedia, per impostare un paradigma completamente differente rispetto alle tassonomie di genere, attraverso la continua sovrapposizione di linguaggi, ritmi e registri, il cui sincretismo è tale da stupire anche i più navigati cinefili. Non a caso Parasite è stato un successo di pubblico, oltre che di critica: i livelli di lettura di ciò che avviene a schermo rispondono alla volontà dello spettatore. Che egli sia semplicemente alla ricerca di un racconto avvincente ed incalzante oppure di una nuova antologia della lotta di classe, troverà ciò che desidera.
…Oltre Parasite
Eppure, con Parasite non è davvero pensabile fermarsi alla magnificenza di ciò che visivamente e narrativamente avviene sullo schermo. La scenografia, la regia e la sceneggiatura convergono e si dispiegano in una metafora del conflitto sociale, inteso sia diacronicamente che acronicamente, ad ogni latitudine e longitudine. La radice ideologica di questa continua riflessione, che nelle battute finali scalfisce anche la solidità narrativa per essere palesata, è la lotta di classe della dialettica marxista.
In questa metafora, i veri protagonisti di Parasite sono i luoghi, la cui carica asettica riesce brillantemente ad essere esaustiva del dramma sociale: oltre alle vicende, gli spazi, che salgono dai sobborghi di Seoul, allo stesso livello dei gargarismi delle fogne in esondazione, per giungere all’elegante e ricercata casa in collina dell’architetto di fama internazionale ossessionato dal pericolo militare nord-coreano, comunicano la verticalità diseguale della società capitalistica ancora saldamente divisa tra proletari e borghesi.
L’indigenza più assoluta dei sotto-proletari, lontanissimi tanto dalle logiche dell’agiatezza della borghesia quanto del revanscismo del proletariato, viene posta, e si pone essa stessa, lontano dallo sguardo, in cantina. La repentina e spaventosa riemersione degli esclusi, esplosa in una rivolta furiosa rispetto ai padroni ai quali erano sempre supinamente ed ossequiosamente sottomessi, inquieta e devasta, ma finisce comunque per soccombere, schiacciata tra gli ingranaggi della storia.
Il conflitto sociale, animato tra chi sta in alto e chi sta in basso, è ormai lotta per la sopravvivenza totale e spietata, e racconta la totale assenza di solidarietà se non all’esterno di nuclei asserragliati (le tre famiglie), con possibile riferimento anche all’involuzione globale dei sovranismi. Un “homo homini lupus” esasperato percorre la classe media, ossessionata dal “metaforico” monolite roccioso dell’abbondanza: il successo, l’ascesa, la disponibilità materiale, a qualunque costo. L’imperativo è liberarsi del puzzo maleodorante di «stracci bolliti», del disprezzo, dello stato di minorità.
Ad ogni modo, è meglio coltivare ambizioni e non programmare meticolosi piani idealistici (parola del capofamiglia Kim-Taek / Song Kang-Ho): l’onta del puzzo di stracci verrà sempre percepita nitidamente da chi sta in alto. La mobilità sociale è un’illusione che, anche se concretizzata, non sovverte mai le logiche del sistema e che sacrifica sempre delle vittime, stipate (avrete compreso la metafora domestica) in cantina.
Si sostituiscono e cambiano le persone, ma non i luoghi, le regole, il contesto. Oggi la classe sociale dei proletari vuole scalzare e sostituirsi a quella borghese, senza dare forma ad una società fondata su basi differenti: la caduta del muro sembra aver spento ogni possibilità di cambiamento, nell’amara rassegnazione del “migliore dei mondi possibili”.
La lotta di classe è finita, la lotta di classe è appena cominciata
Il Cinema costituisce da sempre uno dei principali dispositivi culturali per l’analisi sociale. Ciononostante, poche opere sono riuscite a declinare ed articolare il quadro antropologico e sociale contemporaneo con la stessa solidità dialettica, quasi scientifico-ideologica, di Parasite. Manca, tragicamente, soltanto un elemento a conchiudere questa analisi meticolosa della realtà sociale: una teleologia da seguire, o quantomeno una possibilità di riscatto.
La lotta di classe è finita, eppure è appena cominciata, in tutta la sua violenza. Il sogno americano, arma subdola e artefatta di pacificazione sociale, scricchiola, ma non si scorgono alternative. Le opportunità di partenza non sono uguali per chiunque, e la sopraffazione è necessaria per sopravvivere. La competizione è disumanizzante e lacera il tessuto sociale, ma altre scelte non sono date.
I titoli di coda di Parasite scorrono senza spiragli o consolazioni se non quella della vita stessa, unica possibilità di riscatto. Una conclusione le cui sensazioni di spaesamento sociale e morale ricordano da vicino l’epilogo di un’altro grande capolavoro di Bong, “Memorie di un Assassino”.
Solo l’ultima, apparente antinomia: coerentemente, lo spettatore è considerato non solo destinatario passivo ma parte integrante e attiva della narrazione e della sua interpretazione, cinicamente esistenziale oppure di critica sociale. Sta a noi, al cinema così come nelle nostre vite.
Luigi Iannone