«L’Inferno, sono gli altri»: tra le prime battute del film “Midnight Traveler“ c’è questa frase emblematica mutuata dal filosofo Sartre. A pronunciarla è Nargis, la figlia del regista del film, Hassan Fazili. Subito si mette in luce la natura del viaggio raccontato in “Midnight Traveler“: infernale, perché la famiglia Fazili è costretta a fuggire dall’Afghanistan, dove ha ricevuto minacce di morte, alla volta dell’Europa.
Lungometraggio pluripremiato e sui generis, pur rientrando in un tema oggi di stretta attualità e costantemente sotto i riflettori, “Midnight Traveler” ha la forma di un diario che registra l’esperienza migratoria di una famiglia. Hassan Fazili è un cineasta afghano che ha lavorato anche in campo teatrale. Nel 2014 viene trasmesso il suo documentario “Peace in Afghanistan“, un ritratto del comandante talebano Mullah Torjan nell’atto di deporre le armi e iniziare una vita civile pacifica. I talebani assassinano il protagonista e mettono una taglia sulla testa del regista: da questo momento la famiglia di Fazili si mette in cammino per sfuggire alla persecuzione. Il loro viaggio si protrae per tre anni e seguendo vie illegali dopo la negazione dello status di rifugiati.
A differenza di altri documentari sulle crisi migratorie, “Midnight Traveler” è interamente girato con tre telefoni cellulari dalla stessa famiglia Fazili, dunque non con occhio occidentale, ma attraverso il filtro di chi vive sulla propria pelle una esperienza del genere. Anche la moglie, Fatima Hussaini, lavora in campo cinematografico e come il marito sente la necessità di documentare quell’inferno sulla Terra in cui si ritrovano a vivere sulla strada: fin dall’inizio del lungo viaggio è ben delineata l’urgenza della testimonianza. Il risultato finale non corrisponde certo ai video grezzi originali: si nota bene lo sforzo nel rendere il film fruibile da un pubblico più vasto. In questo è stato fondamentale il lavoro di Emelie Mahdavian, produttrice di “Midnight Traveler”, che conobbe Hassan Fazili proprio grazie a un suo cortometraggio, “A Fazili’s Wife” (2011). A tal proposito è interessante notare come la produzione del regista abbracci fermamente i diritti delle donne, dei disabili, dei bambini. Il suo impegno nel dar voce a chi, almeno nella sua terra d’origine, è escluso dal discorso comune è stato il punto di partenza dell’esperienza del Kabul’s Art Cafe and Restaurant, chiuso dietro le insistenze della polizia e delle autorità religiose del Paese.
L’etica dell’immagine in “Midnight Traveler“: fino a dove si può spingere l’esigenza di documentare?
Il diario di viaggio oscilla di continuo tra il versante esterno e quello interno, pendendo principalmente in direzione di quest’ultimo. A distinguere infatti questo film da molti altri è proprio il ripiegamento sulla vita intima e strettamente familiare dei protagonisti. Oltre a scene di violenza e di dolore – le proteste dei bulgari contro il campo profughi di Ovcha Kupel, o una lista infinita di nomi in attesa del collocamento in un campo in Serbia – scorrono intense le immagini che ritraggono dei momenti felici. Quell’inferno fatto di persone e indifferenza appare costellato di oasi dal volto umano: si vedono le figlie Nargis e Zahra che giocano spensierate, la moglie che cucina scherzando mentre il marito la riprende.
“Midnight Traveler” corre su un doppio binario: il filo del cammino, di cui sono riportati luoghi, date, informazioni, è intrecciato profondamente alle radici della famiglia, sempre unita anche nel limbo di sofferenza che la travolge. All’umanità di cui la storia è carica ci rimandano i dettagli: una carezza paterna sul viso della piccola Zahra, l’emozione nel filmare i tramonti e gli uccelli che volano lontani, il pianto spontaneo di Nargis dovuto alla noia di essere costretta a vivere l’infanzia in fretta e senza certezze. Il valore della vita in questo film è misurato sull’attimo che fugge così come, in silenzio, fuggono i viaggiatori notturni.
Una problematica che attraversa tutto il documentario (e che tra le righe è rivolta anche a noi spettatori) riguarda i limiti del cinema. Il regista Hassan Fazili è irrimediabilmente attratto da due esigenze tra loro conflittuali: quella propria del mestiere di riprendere quanto è presente oltre l’obiettivo, e quella dettata dalla gravità delle situazioni vissute, che richiede silenzio e discrezione. In alcune parti di “Midnight Traveler” emerge con forza l’insolubilità di questa contraddizione. In una scena del film, la moglie risponde con un secco «Spegni» all’insistente ripresa da parte di Hassan Fazili di un momento di sconforto. Ma lo scarto più crudo e spiazzante si verifica quando scompare la figlia minore. Da un lato, infatti, Fazili è spinto a registrare il momento del ritrovamento, immaginando l’effetto della scena sul pubblico di un film ancora in fieri; dall’altro, ritraendosi con ribrezzo da questo accanimento professionale, si impone di non produrre alcuna traccia di una scena tanto drammatica. «Amo il cinema ma a volte è sporco» è un’altra frase chiave che ci riporta alla difficile genesi del film: raccontare ciò che si vive sulla propria pelle comporta il rischio di fare a pezzi questa etica dell’immagine, rischio che ogni giorno, con i media di cui disponiamo, trascuriamo in modo più o meno consapevole. Tuttavia, i limiti della riproducibilità esistono per evitare danni enormi, come dimostra il dissidio dilaniante nell’occhio di una persona che è regista e padre allo stesso tempo.
Testimoniare l’odissea che ha portato la sua famiglia a viaggiare per tre anni, percorrendo chilometri di cui è facile perdere il conto, per Hassan Fazili è il modo più efficace di risvegliare le coscienze. La crisi umanitaria che si è introdotta a forza nella storia della sua famiglia riguarda tutti. “Midnight Traveler” non ha un vero e proprio finale. Nella testa del regista, il film si chiude con l’arrivo in Europa; al momento delle ultime riprese la famiglia si trova in Ungheria. Anche dopo essere entrati in Europa, tuttavia, non conoscono pace. Alla fine, è inevitabile sentire l’eco della canzone di Michael Jackson, sulle cui note balla Nargis, in una delle più belle scene del film:
They don’t really care about us
Arianna Saggio