Gerontocrazia d'America: Joe Biden, il ritiro e la sfida presidenziale Stati Uniti
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“Ora il presidente dell’Ucraina, che ha molto coraggio e determinazione: signore e signori, il Presidente Putin!”. No, non è uno scherzo, sono le parole del 46esimo Presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, al vertice Nato, andato in scena nella notte tra giovedì e venerdì, durante una conferenza stampa in cui lo stesso Biden ha confuso Kamala Harris con il suo avversario, Donald Trump (“vicepresidente Trump”). Delle gaffes, due delle tante a cui Biden ci ha abituato nel corso di questi anni.

Quella di Washington rappresenta la 37esima conferenza stampa dall’inizio del suo mandato e la prima dopo il disastroso confronto “a due” con il Tycoon, in cui l’attuale capo di Stato americano è uscito con le ossa rotte e con la percezione che non sia più adeguato a ricoprire un incarico così gravoso come quello di Presidente della più grande e potente “democrazia” mondiale. Infatti, da quel giorno sono iniziate accese discussioni circa la salute di Biden e sulle sue reali possibilità di vittoria, discussioni dentro e fuori i Democratici americani, con alcuni giornali che hanno a più riprese pubblicato articoli ed editoriali in cui chiedevano al Presidente di ritirarsi, di lasciare spazio a qualcun altro.

Per il momento, la candidatura di Joe Biden regge ma le cose potrebbero cambiare nel caso in cui potenti e influenti sostenitori – anche dal punto di vista finanziario – decidessero di fare un passo indietro. Il primo, e forse più importante, fra questi, George Clooney, attore e star di Hollywood ma anche uno dei più generosi finanziatori del Partito Democratico americano, ha chiesto in mondovisione sul New York Times il ritiro dalla corsa presidenziale di Joe Biden. Se a questo dovessero seguire altri appelli, diventerà davvero difficile per Biden opporre una strenua resistenza, nonostante l’unico e il solo che possa rinunciare alla corsa sia proprio lui. Supponendo che le pressioni sul Presidente dovessero funzionare, chi potrà mai prendere il suo posto? Chi sarebbe disposto a scendere in campo e a preparasi a una sfida che si preannuncia combattuta rischiando, al contempo, di bruciare una futura – e forse più agevole – elezione fra quattro anni? Domande, queste, da tenere in seria considerazione, soprattutto dopo il fallito attentato a Donald Trump.

Biden e i “malumori dem”

27 giugno, primo dibattito televisivo in vista delle prossime elezioni presidenziali. Due candidati: Donald Trump e Joe Biden. Tanti temi: dall’aborto alla guerra in Ucraina, passando per Gaza e la sanità. Si vocifera che il leader democratico abbia trascorso un’intera settimana per prepararsi a questo momento. Non è bastato. Giornalisti, commentatori e opinionisti hanno sottolineato, all’unanimità, tutti i limiti dell’attuale Presidente degli Stati Uniti. Dalla poca lucidità di alcuni momenti alle risposte sconclusionate, alcune delle quali sono state ironicamente commentate in diretta dal suo avversario («Non saprei dire che cosa ha detto alla fine della frase e credo non lo sappia nemmeno lui», una delle risposte più iconiche della serata da parte di Trump). Il disastroso esito del dibattito ha acceso un campanello d’allarme nel gruppo dirigente del Partito Democratico. Secondo alcuni, il Presidente non sarebbe in grado di condurre la campagna elettorale e guidare i dem alla vittoria.

Una delle conseguenze più rilevanti del dibattito ha riguardato proprio quello che, in certi ambienti politici americani, si vociferava ormai da mesi: le condizioni di salute di Joe Biden. Su tale argomento, numerosi opinionisti si sono espressi manifestando una certa preoccupazione, dovuta soprattutto al fatto che il Presidente non riuscisse a restare lucido, confondesse i nomi o addirittura se li dimenticasse – come il caso della nota cronista statunitense Nuzzi, che Biden conosce da anni ma a cui, ad un evento, ha chiesto come si chiamasse. Due settimane dopo il confronto con Trump, tutta la stampa degli Stati Uniti si è concentrata sull’affermare che le precarie condizioni di salute di Biden fossero note a tutti e che nessuno, fino al 27 giugno, avesse intenzione di parlarne. In realtà, gli stessi giornali – anche quelli più autorevoli – si sono impegnati, nel corso dei mesi, a spalleggiare questa decisione, pubblicando editoriali in cui si affermava che il Presidente fosse più lucido che mai.

Insomma si potrebbe affermare, senza timore di essere smentiti, che le condizioni di salute di Joe Biden non fossero percepite come un problema fino a quando si è capito che queste avrebbero potuto avere delle implicazioni politiche. In una frase, tutto il timore dei Democratici di perdere le prossime elezioni. Non sono pochi i deputati e i dirigenti che, anche pubblicamente, stanno chiedendo a Biden di fare un passo indietro. Senza considerare i finanziatori, per i quali, ovviamente, c’è molta più apprensione. Uno di questi è George Clooney, dd è molto probabile che al suo appello ne seguano altri.

Dal canto suo, Biden sta facendo di tutto pur di restare candidato. Il suo staff sta facendo leva sul fatto che lui sia il leader del partito, abbia ottenuto 14 milioni di voti e che sia “la persona migliore per battere Trump nel 2024“. In una lettera, rivolta principalmente ai deputati e senatori dei Democratici, il Presidente ha sottolineato innanzitutto la totale assenza di alternative, le quali sono state “sonoramente sconfitte” durante il processo delle primarie. Inoltre, in diverse riunioni informali con i parlamentari che lo sostengono, Biden ha chiesto di “sostenerlo pubblicamente”. Un modo per mettere a tacere i dissidenti interni, cioè quelli che, più degli elettori, preoccupano il Presidente e il suo comitato.

Per il momento, la posizione del Presidente resta salda. D’altronde, soltanto lui può decidere di ritirarsi e, per quanto le pressioni esterne possano aumentare, Biden resta l’unico candidato espresso dal Partito Democratico. Di recente una riunione dei deputati al Congresso, che taluni hanno definito “intensa”, si è conclusa con la “vittoria” della posizione del Presidente. Certamente le cose potrebbero cambiare, soprattutto in vista di defezioni più ampie dentro e fuori le aule parlamentari. Il tempo stringe, però, al secondo dibattito e alle prossime elezioni – soprattutto – manca sempre meno.

Gerontocrazia d’America: le alternative latitano

81 e 78 anni. Queste sono, rispettivamente, le età dei due candidati alla Casa Bianca, di Joe Biden e di Donald Trump. Gli Stati Uniti non riescono più ad esprimere candidature giovani, la politica fatica a svecchiarsi. A preoccupare i democratici – ma anche i repubblicani – dovrebbe essere la totale assenza di alternative a due candidati espressione di un’altra generazione, troppo “vecchi” per comprendere le esigenze di un Paese in cui la questione anagrafica non sorride a entrambi i contendenti. Secondo un sondaggio, per l’86% degli americani Joe Biden è “troppo vecchio” per guidare il Paese. Percentuale che scende, per Donald Trump, al 62%. Entrambi i valori, però, sono alti e indicano un certo malumore nei confronti di una democrazia che sta diventando sempre più una “gerontocrazia“.

La necessità di lanciare una nuova classe dirigente, “al passo con i tempi”, è molto sentita negli Stati Uniti. Ad affermarlo Daniel Stockemer, docente di studi politici all’Università di Ottawa specializzato nella rappresentazione dell’età. Un problema, quello dell’età, che accomuna tutto l’Occidente e non solo. Gli Stati Uniti, storicamente, hanno avuto presidente più vecchi rispetto agli altri Paesi del G7, con alcune eccezioni negli ultimi anni (e senza contare Kennedy). Lo stesso problema riguarda anche il Congresso, in cui la media è di 58 anni per la Camera e 65 per il Senato. Non c’è spazio per i giovani. E non c’è, conseguentemente, lo spazio per un’alternativa. La stessa che, dopo il disastroso dibattito del 27 giugno, i dirigenti democratici stanno cercando a più riprese per non perdere le prossime elezioni del 5 novembre.

In molti hanno posto l’accento sulla possibilità di candidare la vicepresidente Kamala Harris, più giovane e sicuramente più energica rispetto a Biden. 58 anni, prima donna nera vicepresidente, ma con una popolarità ancor più bassa di Joe Biden e con i sondaggi che la danno indietro di 5-6 punti rispetto a Donald Trump. Complici gli incarichi da vicepresidente, molto delicati – come quello sulle politiche migratorie -, la popolarità di Harris non è mai decollata. Tra l’altro, come in molti ricordano, all’inizio del suo mandato le interviste che ha rilasciato non sono state molto efficaci. Sulla carta, però, rappresenta l’alternativa più “logica” nel caso in cui il Presidente decidesse di ritirarsi.

Negli ambienti democratici si respira un’aria molto pesante. Fuori dalle aule, il Paese chiede un cambiamento sistemico che, di sicuro, non arriverà a breve. Per il momento, l’architettura del potere statunitense non consente alcun “avvicendamento anagrafico”. Un problema che si riflette anche sul resto dell’Occidente dove, si sa, i Paesi seguono a ruota i movimenti degli Stati Uniti. La realtà dei fatti, che vale in tutte le situazioni, è una sola: se la politica, a tutti i livelli, non deciderà di concedere spazio a una nuova classe dirigente, sarà davvero difficile uscire dalla gabbia della “gerontocrazia”. Il caso di Joe Biden, Presidente degli Stati Uniti – e cioè della più grande e potente democrazia del mondo – è forse l’esempio più lampante di quanto l’assenza di alternative possa diventare un serio problema.

Donatello D’Andrea

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