Il Governo del cambiamento è nato. Dal 4 marzo ad oggi abbiamo sentito e visto di tutto: dall’indecisione pentastellata alla deriva sovranista di Salvini, all’isteria collettiva sul possibile impeachment al Presidente della Repubblica, allo spread che è tornato a riempire la nostra quotidianità. E alla fine, dopo circa 90 giorni di pura agonia, giovedì 31 maggio Giuseppe Conte è risalito al Colle con una lista dei ministri sottoscritta da Sergio Mattarella. Sono 19, quasi tutti uomini. Quasi tutti avversi alle questioni LGBT, ai diritti delle donne e al rispetto delle minoranze. È definito “Governo del cambiamento”, un Governo che apre le porte al peggiore dei gironi dell’Inferno: quello dei bigotti fascisti ed omofobi, araldi del sessismo.
Insomma, l’Italia proprio non ce la fa a mettere in agenda, tra le priorità, i diritti delle donne: si parla di diritti di una società che voglia definirsi civile, di uno Stato che prenda atto di problematiche che influiscono sulla vita di tutti. Ma il Governo Conte nasce senza un Ministero per le Pari Opportunità, esattamente come aveva voluto Matteo Renzi, e questo la dice lunga.
Posizioni retrograde, irrispettose della dignità delle persone, sono quelle del neo-ministro alla Famiglia e alla Disabilità Lorenzo Fontana. Sui social si è scatenata un’ondata di indignazione fin dalle prime dichiarazioni rese a poche ore dal giuramento del 38enne leghista: «Sono cattolico, non lo nascondo. Ed è per questo che credo e dico anche che la famiglia sia quella naturale, dove un bambino deve avere una mamma e un papà» ha affermato, spiegando che la famiglia è solo quella “naturale”, mentre quelle arcobaleno “per legge non esistono”. A sollevare polemiche anche le precedenti prese di posizione: nel suo libro, “La Culla vuota della civiltà”, Fontana si schiera contro la legge 194 sull’aborto e parla delle unioni civili, sostenendo le politiche anti-migratorie e pro-life del presidente russo Putin.
Pone, inoltre, al centro dell’attenzione il tema cruciale dell’autodeterminazione. Per capire a cosa vogliamo alludere, riportiamo alcune sue dichiarazioni: «Purtroppo nel nostro contratto non c’è la stretta sull’aborto», ha dichiarato al Secolo XIX. Continuando: «Più che di aiuti alle famiglie io parlerei di aiuti alla natalità. Viva le mamme». Insomma, nell’angusta visione antropologica del ministro, le donne sembrano relegate al rango di incubatrici per la patria. Cosa che non sorprende, se pensiamo al ruolo che le donne hanno nel Governo: su 63 componenti, solo 11 sono di sesso femminile. Il tuo voto conta, insomma. Se sei donna, però, molto di meno.
Sempre sul rispetto dovuto alla componente femminile, neppure Salvini eccelle. In un comizio a Brescia, infatti, ha dichiarato: «In Italia abbiamo i fenomeni a sinistra che sono femministe e a favore dell’Islam. Mettetevi d’accordo con voi stesse: o fai la femminista o ti metti il burqa». Nessuno ha spiegato a Salvini che essere femministe non coincide col vestirsi all’occidentale, ma fare in modo che chi sceglie il velo lo faccia consapevolmente. Concetto, forse, troppo elaborato per il neo-ministro degli Interni.
Insomma, tutte dichiarazioni che non susciterebbero la minima indignazione… se solo fossimo in pieno ventennio fascista. Così la nostra classe dirigente (e non solo), attraverso la tv e i social, ci martella con un ormai normalizzato sessismo linguistico, impreziosito dalla definizione trash che ne ammanta una qualche dignità subculturale, fino a giustificarne l’uso. Parlare così, quindi pensare così, ti rende una persona moderna, diretta, cool, smart.
A questo punto è necessario chiedersi quanto permeati siano il fenomeno del sessismo e delle questioni gender e in che modalità essi abbiano origine. In effetti il tutto prende forma dalla tenera età; ce lo spiega Elena Gianini Belotti, che nel 1973 pubblicò per Feltrinelli il suo maggiore successo, “Dalla parte delle bambine“, un saggio che racconta dei condizionamenti indotti dal sessismo che sono alla base dell’educazione imposta alle femmine, condizionamenti che attengono esclusivamente a motivazioni di ordine sociale ed etico più che a questioni intimamente legate alla biologia, all’anatomia o a differenze fisiche tra uomini e donne.
La tesi sostenuta dalla scrittrice romana è appunto questa: la tradizionale differenza di carattere tra maschio e femmina non è dovuta a fattori “innati”, ma ai condizionamenti culturali che l’individuo subisce nel corso del suo sviluppo. Come il classico discorso delle “cose da femmine”, ad esempio; dei modi in cui “una donna deve comportarsi”, per non parlare poi di giocattoli, vestiti, libri. Insomma, una vera e propria categorizzazione che spinge, erroneamente, a pensare che esistano cose riservate agli uomini e altre riservate alle donne. Ragionamenti ormai ampiamente superati; ma ne siamo proprio sicuri?
La realtà è che siamo ancora fortemente intrisi da questa mentalità discriminatoria e a suo modo classista, attua ad etichettare, distinguere, classificare. Lavori da uomo e da donna, giochi da bambino e bambina, fino al più evidente dei parti della diversità conclamata, la diversità di stipendio, di raggiungimento delle posizioni professionali di comando, la disparità di accesso a qualifiche di prestigio e la sorpresa laddove una donna vi riesca. Ciò ci fa comprendere quanto la nostra società sia infettata da una piaga terribile, quella della repressione sessuale animata dalla componente religiosa. La donna, ovviamente, è una delle maggiori vittime di questa violenza psicologica, annegata sin dalla nascita in un mare di fallo-centrismo e sottomissione: ciò si può notare dai primi anni a contatto con le istituzioni scolastiche (imposizione della separazione di genere tra bambino e bambina) e con il mercato del consumo con giocattoli appositi per femmine, segnando così il destino della donna, ovvero quello di femmina di plastica, prima, e madre-casalinga, dopo. Inconsciamente vista come mero ricettacolo vaginale per la continuazione della specie, la donna non appartiene al proprio corpo e viceversa, ma all’uomo o al bambino che dovrà nascere.
Inutile dire, dunque, che la scuola ha sempre giocato e gioca tutt’ora un ruolo fondamentale nella crescita e nello sviluppo della coscienza critica del singolo individuo: basti pensare che già durante il ventennio facista venivano impartite lezioni di “lavori donneschi”, insegnamenti che miravano a categorizzare, sottomettere il “sesso debole”.
Diciamocela tutta, chi nega che vi sia ancora una profonda disparità tra i due sessi nega l’evidenza: perché la donna che sceglie la realizzazione professionale fa ancora scandalo, così come chi sceglie di essere una buona mamma e allo stesso tempo dedicare parte della propria vita al lavoro. E nonostante ci siano manager, ministri e magistrati di sesso femminile, bisogna tuttavia rilevare che nella maggioranza delle casistiche gli incarichi di maggior prestigio vengono svolti da uomini, situazione che l’Italia dal 2015 ha pensato di risolvere con l’inserimento delle famigerate quanto inique Quote Rosa, che sono quanto di più lontano vi possa essere dal riconoscimento delle capacità e delle competenze, che ovviamente non passano certo dall’appartenenza di genere.
In tema di libertà ed autodeterminazione femminile svolgono, anche in questi ultimi mesi, un ruolo centrale le norme che disciplinano l’aborto. In effetti la questione dell’obiezione di coscienza (sollevata dal neo-ministro alla famiglia e alla disabilità) continua ad essere una questione spinosa, che da anni mina l’effettiva attuazione della legge 194/1978. I dati presentati dal Ministero della Salute nell’ultima Relazione, mettono, infatti, in luce come il numero dei ginecologi obiettori di coscienza sia in lieve, ma costante aumento. Analogo timore è stato espresso anche con riferimento al numero di aborti clandestini. Questi ultimi renderebbero la pratica altamentente rischiosa per coloro che la attuano, dovendo di fatto utilizzare metodologie “fai da te”.
Affermare che il Vaticano e i cattolici integralisti in generale non interferiscono con le decisioni di uno Stato che dovrebbe essere laico è negare l’evidenza: oramai fa carriera il medico obiettore, quello che non mette in discussione le radici cattoliche del proprio Paese, in cui gli ospedali pubblici continuano ad avere padiglioni dedicati a santi cattolici. In termini puramente crudi esigono che si “sfornino” figli nei tempi, nelle quantità, nelle forme indicate da loro, obiettori di coscienza, patriarchi istituzionali che fanno pinkwashing parlando di femminicidio e ignorando che la sostanza della violenza di genere sta proprio nel negare la possibilità di autorappresentarsi e scegliere su tutto quello che riguarda il proprio corpo.
Non si parla esclusivamente di “misoginia”: chi pretende di qualificare la parola sessismo esclusivamente con il colore rosa compie un’operazione orwelliana volta a creare il pensiero unico, che in questo Paese abbonda. Il sessismo va debellato, soprattutto se volto a far germogliare il seme malato della guerra tra i sessi, guerra di cui oggigiorno si parla in maniera così superficiale da non riuscire a comprenderne l’effettiva gravità. Insomma, questa situazione ha tra le sue cause generatrici anni di politiche discriminatorie e profondamente intrise di sessismo, oggi con Lorenzo Fontana che si aggrappa alla sua profonda religiosità, ieri con il Ministro della Salute Beatrice Lorenzin che organizzava Fertility Day per “incentivare la natalità” e non inserendo la pillola del giorno dopo tra i farmaci d’emergenza.
Possiamo dirlo forte: nonostante i passi da gigante che negli ultimi anni sono stati fatti per la rivendicazione di diritti che garantiscano una reale parità dei sessi, l’Italia rimane ancora un Paese fortemente ancorato al sessismo e ad usi e costumi profondamente patriarcali, e il governo Legastellato si appresta a far crescere e rafforzare la malapianta seminata e annaffiata dai governi che lo hanno preceduto. D’altronde non c’è da stupirsi: se è vero che ogni popolo ha il governo che si merita (così come affermò il vecchio e caro Aristotele qualche secolo fa), allora non avremmo potuto chiedere di meglio; ammesso che scegliere fosse stata una realtà almeno lontanamente contemplabile.
Mena Trotta
Immagine in evidenza: Silvia Serini, Donne e Grande Guerra: narrazioni, limiti, possibilità tra ricerca e didattica, in “Clionet. Per un senso del tempo e dei luoghi”