Architetto, scultore, orafo, scenografo. E, a sorpresa, ingegnoso beffatore: sì, proprio Filippo Brunelleschi, l’ideatore della prospettiva e il progettista della più grande cupola in muratura mai realizzata al mondo – quella del Duomo di Firenze –, fu anche – non tutti ne sono a conoscenza – l’orchestratore di una divertentissima beffa, destinata a divenire la novella più famosa di tutto il Quattrocento: la Novella del Grasso legnaiuolo.
Dapprima fonte di sollazzo per i soli scultori e pittori che non disdegnavano ripetere più e più volte quella vicenda raccontata loro dallo stesso Brunelleschi, la novella finì poi per assurgere a intrattenimento preferito di coloro che nulla avevano a che fare con il mondo dell’arte: di bocca in bocca, la spassosa storia dell’ebanista che credette di essere diventato un altro conobbe in breve un notevole successo e pure – così come accade a tutto ciò che viene trasmesso oralmente – non pochi tagli e stravolgimenti.
Fu il biografo dell’architetto, Antonio Manetti, a decidere che la Novella del Grasso legnaiuolo meritasse di essere consegnata ai posteri in una versione che fosse quanto più vicina possibile alle parole del Brunelleschi: nasce così la redazione più lunga e dettagliata della beffa, quella che, in genere, oggi si suole leggere.
Brunelleschi vs Grasso legnaiuolo: due universi a confronto
Svoltasi a Firenze nell’inverno del 1409, la vicenda ha inizio una domenica sera, quando Manetto Ammannatini, detto il Grasso, non si presenta – forse per la sua bizzarria – a casa di Tommaso Pecori, là dove era stata organizzata e preparata una cena tra uomini dabbene, i quali, sentitisi offesi dalla sua ingiustificata assenza, cominciano a tramare svariati piani di vendetta. Tra questi, il più geniale, ma anche il meno fattibile, appare quello immaginato da Brunelleschi:
[…] poi che alquanto fu stato sopra di sé, disse: «È mi darebbe el cuore che noi gli faremo una piacevole natta, in luogo di vendetta del non ci essere venuto questa sera, di condizione che noi n’aremo ancora di grandi piaceri e di gran sollazzi: se voi me ne credessi, e’ mi darebbe el cuore. Modo ho pensato che noi gli faremo credere che fusse diventato un altro, e che non fussi più el Grasso legnaiuolo»
Convincere un uomo di aver assunto una nuova identità non è di certo un’impresa semplice. A Brunelleschi, tuttavia, piacciono le sfide, specie quelle che mettono a dura prova la sua intelligenza e che, se superate, consentono di occupare un posto fisso nel libro incorruttibile della Storia e, in tal caso, anche della Letteratura.
Raggirando il Grasso – spalleggiato tra l’altro da un’altra mente sopraffina, quella di Donatello – Filippo potrà dimostrare per l’ennesima volta, e con un’opera da astuzia e non di ingegneria, la sua capacità di plasmare e sottomettere il reale: la buona riuscita della beffa decreterà il trionfo dell’Umanesimo, dello spirito rinascimentale sulla cultura medievale, sull’arretratezza dell’artigiano arroccato nel suo mestiere, nel chiuso di una bottega al di fuori della quale non c’è altro che conti.
La novella come teatro
La beffa ordita dal Brunelleschi con la complicità dei compagni non può che presentarsi come una vera e propria opera d’arte: per far sì che essa risulti indimenticabile e che si mostri come il frutto di un ingegno fuori dal comune, è necessario conferirle le vesti di uno spettacolo teatrale. E, in effetti, la Novella del Grasso legnaiuolo si presenta come una sorta di commedia articolata in molteplici atti, in scene vivaci che inquadrano diversi luoghi della città – il laboratorio dell’intagliatore, l’esterno della sua abitazione, piazza San Giovanni, il carcere – nei quali i movimenti dei singoli attori sono tutti ben studiati e volti a illuminare azioni e psiche della vittima.
Diversi equivoci, tutti ugualmente esilaranti e dal sapore classico – tra le fonti principali del racconto vi è, senza dubbio, l’Anfitrione di Plauto –, convinceranno Grasso di essere diventato un certo Matteo Mannini, uno scansafatiche indebitato fino al collo, giustamente perseguitato dai suoi creditori. Grasso si ritroverà così dietro le sbarre, poi liberato dai presunti fratelli, i quali lo costringono a confessare i suoi peccati a un sacerdote e, infine, nuovamente nel letto di casa sua, dove, risvegliatosi da un sonno profondo, affida la ricerca della verità agli organi di senso: con gesti spiccatamente teatrali, il legnaiuolo si tocca ora il braccio ora il petto, come se a distinguere un sogno dalla realtà debba essere il corpo con i suoi impulsi, piuttosto che la mente.
Il piano del Brunelleschi non è però ancora concluso: a coronare la pièce sarà l’incontro – nel quale il comico raggiunge vette altissime – del beffato con il sosia. Grasso e Matteo, faccia a faccia, non faranno altro che ingarbugliare ulteriormente la questione, trasformatasi nelle ultime pagine in una matassa che nemmeno Aristotele saprebbe dipanare, ma che solo Filippo – e il lettore, reso complice, lo sa – potrebbe sciogliere.
A rendere tutto più chiaro al legnaiuolo sarà invece il colloquio con la madre, in seguito al quale Grasso, finalmente cosciente di esser stato vittima di una beffa corale, decide di lasciare Firenze e trasferirsi in Ungheria, luogo in cui saprà finalmente farsi artefice della sua fortuna. La novella, che ormai ha assunto schema e toni della commedia, non può però chiudersi amaramente, con la fuga dello sconfitto:
E venne poi in Firenze più volte in ispazio di più anni per più mesi per volta; e alla sua prima venuta, sendo dimandato da Filippo della cagione della partita di Firenze in tanta furia e sanza conferire nulla con gli amici, ordinatamente gli disse questa novella ridendo continovamente […] di condizione che Filippo non n’aveva mai pel passato risone sì di buon cuore come fece questa volta,
Alla fine beffato e beffatore si ritrovano e si raccontano, regista e attore passivo acquistano nuovamente pari dignità, uniti da un riso che sancisce l’appartenenza di entrambi a un mondo di cui l’uomo è al contempo creatura e creatore.
Anna Gilda Scafaro