Il 27 aprile scorso è andato in scena al Teatro Il Piccolo di Cava de’ Tirreni “6 Maggio 1938” con la regia di Guglielmo Lipari e la sceneggiatura di Valeria Emanuele. Lo spettacolo, liberamente ispirato al celebre film di Ettore Scola “Una giornata particolare”, ambientato negli anni del fascismo italiano, segue l’incontro tra Luciana, donna, madre e moglie fascista alle prese con la famiglia e le faccende di casa, e Antonio, ex radiocronista dell’EIAR licenziato per via del suo orientamento sessuale.

La storia di quella giornata in cui il führer Adolf Hitler fa visita alla Roma dell’Italia in pieno fascismo si intreccia con la storia di due solitudini che, in mezzo a un mare di gente, non si erano mai riconosciute come tali l’una in relazione all’altra. Sia Luciana (interpretata da Anna Rapoli) che Antonio (interpretato da Marco Abate) indossano i vestiti che il fascismo ha cucito loro addosso: la prima è rinchiusa tra le mura domestiche a guardia del focolare, il secondo è perseguitato dal regime perché portatore di quel “vizio abominevole” di cui parlò la Commissione Appiani quando discusse l’attuazione della nuova normativa (articolo 528 del Codice Penale Rocco).

La femminilità e l’omosessualità nel Ventennio sono piegate al potere del fascismo.

Concentriamo l’attenzione su due delle armi preferite dal fascismo: il culto della virilità e quello della famiglia, nucleo al servizio dello Stato nel progetto politico di incremento demografico voluto da Mussolini. Parallelamente al lavoro salariato dell’uomo correva il lavoro casalingo e materno della maggior parte delle donne, considerate pericolose se sterili, irresponsabili o spendaccione e dunque private delle “distrazioni” come l’istruzione e i beni voluttuari (per i quali lo stereotipo le accusava di lavorare, quando in realtà la fatica invisibile di molte era mossa da urgenti necessità). Se in un primo momento il ruolo attivo della donna nella comunità era contemplato dai programmi del fascismo (si veda il programma dei Fasci italiani di combattimento del 1919 o la Carta del Carnaro del 1920, o ancora la legge del 1925 che permetteva ad alcune categorie femminili l’elezione di amministratori locali, nonostante durò circa tre mesi), successivamente dovette retrocedere dalla politica alla casa. La politica che mira a incrementare le nascite che secondo le statistiche sarà fallimentare, grava sulle donne che sono costrette a vivere la maternità non come un dono e una scelta libera ma come imposizione dall’alto e servizio dovuto alla patria. Persino il diritto al lavoro è messo in discussione: la donna lavoratrice è dannosa, per il fascismo, tanto che un decreto del 1938 ordina a uffici pubblici e privati di ridurre il personale femminile al 10%. Due anni dopo, paradossalmente, sarà lo stesso regime a sospendere il provvedimento e a invocare l’aiuto delle donne, perché allo scoppio della guerra mondiale queste prenderanno il posto dei mariti impegnati a combattere.

Restrizioni eloquenti in quanto a contraddittorietà del fascismo e anche per questo degne di nota sono quelle imposte a chi si dichiarava omosessuale. Quest’ultima realtà cozzava terribilmente con lo stereotipo dell’uomo virile, nuovo, forte voluto da Benito Mussolini. L’omosessualità durante il periodo del fascismo era considerata un male da estirpare; motivo per cui vennero presi provvedimenti contro chi ostentasse questo orientamento. Nel progetto del Codice Rocco del 1927 era previsto larticolo 528 che avrebbe punito con la reclusione da 1 a 3 anni i colpevoli di relazioni omosessuali, ma alla fine venne eliminato: pur di non dare visibilità al fenomeno e non gettare discredito su un’Italia di uomini virili si scartò l’idea di avere leggi ad hoc come si fece nella Germania nazista (Paragrafo 175 del Codice Criminale del Reich, promulgato da Hitler nel 1935 come 175a o 175 modificato). La repressione in Italia viene quindi relegata alla polizia e la pena si limita ad ammonizioni o confini nelle isole del Mediterraneo.

Lo spettacolo dunque ci offre uno spaccato del tempo in questo senso. Abbiamo incontrato l’attrice Anna Rapoli per parlare della donna in “6 maggio 1938” e nell’Italia fascista.

L’ideologia fascista ha investito la donna di un ruolo chiave all’interno dello Stato: regina del focolare e serva della patria, se ne apprezzavano il romanticismo e l’attitudine alla cura della famiglia e ne venivano disdegnate l’indipendenza e la forza. Dietro alla maschera di importanza si celava però un bavaglio alla libertà femminile: la donna doveva essere madre prolifica e moglie obbediente in tutto, all’ombra del maschio virile. In che misura Luciana sa di essere dentro questo paradosso e quando capisce di volersi liberare?

«Dopo l’incontro con Antonio lei vive una sorta di liberazione: fino a quel momento ha accettato istintivamente lo schema dell’inferiorità femminile, ma con lui capisce di poter valere qualcosa. Qui prende respiro la sua volontà repressa da sempre di emanciparsi e seguire in qualche modo anche le proprie aspirazioni. Tenta di sedurre Antonio, pur essendo incastrata nell’abituale impossibilità di vivere a proprio piacimento l’erotismo: l’iniziativa da parte della donna era vista come propria di una persona dai facili costumi, e anche in questo si può vedere una forma di violenza. Nel monologo finale amaramente dice: “Mio marito ordina di giorno e di notte”

Cosa hai provato nell’interpretazione di una donna adulta del ventennio fascista?

«Ho riscontrato varie difficoltà. Alla più evidente, ossia il fatto che Luciana è una donna grande di età e con sei figli, ho ovviato prendendo esempio da mia madre, da sempre indaffarata e lavoratrice. In secondo luogo mi sono confrontata con un assetto familiare patriarcale in cui è l’uomo a decidere su tutto e la donna ha il dovere di calarsi completamente nelle esigenze altrui trascurando i propri bisogni. Nel film come nello spettacolo infatti si vede una donna stanca, dagli abiti semplici, non curata. L’ostacolo maggiore è stato però il calarsi psicologicamente nell’accettazione della sottomissione femminile come fenomeno naturale: fin da piccole alle donne era inculcata la loro inferiorità, tant’è vero che quando nel film Gabriele legge che queste non hanno lasciato nulla nell’architettura e negli altri campi e per questo sono persone subalterne, la protagonista asserisce dicendo che “sono sempre stati gli uomini a riempire i libri di storia”. Nel post-fascismo si avrà il rovescio della medaglia quando le famiglie, soffrendo l’assenza delle figure maschili impegnate al fronte, ruoteranno per forza di cose intorno alle donne.»

Quale messaggio vuole trasmettere il vostro spettacolo?

«Innanzitutto non c’è uno scopo pedagogico. L’obiettivo è restituire una fotografia di quello che al tempo era l’entusiasmo febbricitante per il fascismo. Consideriamo che è facile giudicare il passato, difficile invece riuscire a riconoscere le opacità e le crepe nel muro apparentemente trasparente che ci si trova di fronte nel presente, specialmente se non si hanno strumenti che permettano di sviluppare criticità, primo fra tutti la cultura: ecco perché Luciana, ignorante, nutre una cieca speranza nell’alleanza tra Hitler e Mussolini e ritaglia continuamente fotografie del Duce, attratta dalla sua forza. Al contrario Antonio, uomo dal pensiero indipendente, non crede nel fascismo e non si lascia incantare da ciò che esso propina alla gente.»

Che rapporto ha “6 Maggio 1938″ con l’antecedente cinematografico, “Una giornata particolare” di Ettore Scola?

«Il riadattamento teatrale presenta delle differenze rispetto al film. In scena ci sono due attori, c’è un atto unico che non ha come in “Una giornata particolare” una parte introduttiva e una parte finale (nel film questi due pezzi hanno un taglio fotografico, si vedano le inquadrature degli edifici, la presenza del marito, dei figli e degli altri personaggi a teatro assenti). Il pubblico viene catapultato subito nell’incontro delle due solitudini. La solitudine, perno dello spettacolo, è percepita in due modi diversi: per Luciana, sfruttata come donna, madre, moglie da un marito che la considera una serva sotto ogni punto di vista è una condizione naturale e indotta; Antonio incarna un dramma reale, tangibile, dal momento in cui viene licenziato dalla radio dove lavora perché è omosessuale, è costretto ad allontanarsi dal compagno e arriva a meditare il suicidio per evitare che la morte gli venga data per mano dei fascisti.»

Arianna Saggio

 

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