Black Panther, del giovanissimo regista Ryan Coogler, riesce a ridefinire l’idea di “cinecomic“, innovando e alzando l’asticella quel poco che basta per rendere la pellicola Marvel la migliore della serie.
Il film è la risposta alla domanda: “Come dovrebbe essere un film di fumetti nel 2018”? Coinvolgente, con tanta azione e humour al punto giusto; sì, perché è questa la nota dolente degli ultimi prodotti della “casa delle idee”, la Marvel, quella Marvel che sta sfornando cinefumetti a tutto spiano esagerando talvolta con il lato comico del film, sfociando spesso nella commedia o nel demenziale.
Ma tutto questo non riguarda Black Panther: prendete tutti i film di genere dell’ultimo decennio e dimenticateli. Questa pellicola vi sorprenderà, dalla scena introduttiva ai (bellissimi) titoli di coda.
Ma è davvero solo questo? Un bel cinecomic? No… Il “carrozzone” dei supereroi made in USA fino ad ora ha offerto uno scenario che si può definire banale, quasi come se i personaggi stessi fossero copie e distorsioni di loro stessi, Batman e Iron Man miliardari, Thor, un dio nordico, Spider-Man, un giovane prodigio, Capitan America una recluta della seconda guerra mondiale e via discorrendo. Prima di Black Panther i supereroi “neri” non avevano mai fatto la loro comparsa sul grande schermo, non in questo modo almeno.
Sarebbe stato semplice reclutare attori di colore, comparse, anche ricorrendo ai migliori “su piazza” come ad esempio il premio Oscar Lupita Nyong’o protagonista femminile del film. E invece no. L’intera macchina di produzione, il cast, il regista, tutti di colore; una vera rivoluzione che di certo avrà avuto il risalto che meritava in una Hollywood sempre attenta a genere ed etnie tanto che in molti film vengono forzate le scelte del cast proprio per evitare di discriminare qualcuno.
La storia riprende le vicende di Capitan America: Civil War, con T’Challa (Chadwick Boseman) che assume il controllo del suo paese come Re in seguito alla morte di suo padre. Per decenni, lo spirito del Wakanda – uno stato immaginario – ha prosperato indisturbatamente nel cuore dell’Africa orientale, credendo che se le potenze mondiali avessero scoperto la sua ingegnosità scientifica e tecnologica il paese avrebbe rischiato di ricevere una minaccia costante. I conservazionisti – tra cui la madre di T’Challa, Ramonda (Angela Bassett) e Okoya (Danai Gurira), capo della sicurezza composta da sole donne, credono che il paese debba continuare così, rispettando la tradizione, aiutando esclusivamente la sua stessa gente, altri invece, come W’Kabi (Daniel Kaluuya) e Nakia (Lupita Nyong’o), persone molto vicine a T’Challa, aderiscono a una visione più “panafricana” del mondo, credendo che i Wakandiani abbiano il dovere morale di aiutare i meno fortunati, siano essi profughi, bambini poveri negli Stati Uniti o attivisti coinvolti nella tempesta di protesta contro l’ingiusta influenza degli stati che li ospitano. Insomma è il momento in cui lo stato del Wakanda non può più rimanere in disparte e che si renda conto che anch’esso deve cedere al grido di un mondo che cambia.
A destabilizzare ancor di più la situazione è Erik Stevens, per gli amici “Killmonger” (interpretato da Michael B. Jordan); un ex mercenario dei Black Ops alimentato dalla sete di vendetta per la morte del padre, il principe N’Jobu, assassinato da nientemeno che dal defunto padre dell’attuale Re. Killmonger trova un alleato in W’Kabi, crede che lo stato del Wakanda debba posizionarsi come una forza globale equipaggiando fazioni emarginate con le sue armi all’avanguardia – una mossa che sicuramente libererà il paese dall’ombra trasformandolo in una superpotenza internazionale.
È la prima volta in un film Marvel che il villain principale sia così ben riuscito e l’interpretazione di Jordan è da manuale, ben lontana da quella della “torcia umana” dello sfortunato reboot dei Fantastici 4. Il suo personaggio è solido, appassionato, tormentato, mosso da un sentimento di rabbia che, se vogliamo, è anche giustificato. Si ha la netta sensazione che il film conti due protagonisti, se non fosse per il titolo quasi ci dimenticheremmo per chi fare il tifo.
La sceneggiatura di Black Panther è ben scritta, merito anche del talentoso nonché giovanissimo regista; la scenografia è sorprendente in quanto riesce a mescolare e fondere passato e futuro: gli abiti Wakandiani, l’architettura, i balli e i comportamenti degli abitanti stessi.
La domanda da porsi durante tutto il film trova riscontro nei temi sociali più attuali: “Fino a che punto uno stato dev’essere responsabile di proteggere il proprio popolo? E quanto deve spingersi oltre per cercare di farlo?” Coogler ha saturato il film con numerosi cenni alla cultura nera oltre a quella immaginaria del Wakanda e alle sue tradizioni popolari. Attraverso i dialoghi dei protagonisti vi è una critica non troppo celata verso gli oppressori e verso tutti quelli che potrebbero fare la differenza aiutando il prossimo ma che non lo fanno, restando semplicemente “a guardare”.
Andando oltre queste chiare citazioni di protesta verso un popolo, quello nero, visibilmente in difficoltà, Black Panther è un prodotto di qualità superba. Confezionato attraverso l’occhio giudizioso di Coogler che non sbaglia una scena, una frase, non sfocia mai nel sentimento di pietà verso i più sfortunati facendo distogliere l’attenzione da una narrativa incalzante, dotata di ritmi elevatissimi.
Lo sceneggiatore-regista trentunenne ha ridefinito l’intero universo dei supereroi: il merito va sicuramente alla sua visione singolare e alla convinzione che le storie “nere” siano importanti e che siano ancora più importanti se realizzate per il grande schermo, indipendentemente dalla forma narrativa che assumono. Lo ha dimostrato con Fruitvale Station, il suo film di apertura del 2013 sull’assassinio di Oscar Grant, e ancora con Creed.
Insomma Black Panther è il pezzo forte di Coogler: è il regalo a tutte quelle persone che nutrivano la speranza di poter vedere finalmente un personaggio di colore di spessore, lontano dal genere comico o da ruoli “di contorno”.
Giuseppe Palladino