Stanley Crawford (Colin Firth) è un famosissimo mago cinese di nome Wei Ling Soo che, una volta spogliatosi dei suoi abiti di scena, non è altro che un cinico razionalista che vede il mondo per quello che è: una triste miscela di ingannevole felicità e banale inganno. Ragion per cui  è incaricato dal suo amico ed ex collega Howard di scoprire i trucchi di Sophie (Emma Stone), affascinante giovane donna dotata (pare) di poteri straordinari grazie ai quali legge nel passato dei suoi conoscenti, li fa entrare in contatto con il mondo dell’aldilà e fa la bella vita in Costa Azzurra a spese dei suoi entusiasti e ricchissimi ospiti. Ma, complici un temporale inaspettato e un incantevole cielo stellato dopo la tempesta, Stanley finisce per subire il fascino della giovane donna che insinuerà per la prima volta il dubbio nel suo razionalissimo mondo. Il tutto ambientato in una magnifica Provenza degli anni ’30.

Potrebbe sembrare un cliché in un film di Woody Allen la comparsa di un genio misantropo e disilluso che rivoluziona il suo mondo dopo l’incontro con una giovane spensierata che si gode il bello della vita, e non serve andare molto indietro nel tempo per riportare alla mente la figura di un vecchio Boris Yellnikoff, con i suoi sermoni sulla razionalità e sul pragmatismo, e di una biondina di nome Melany, persa con la testa tra le nuvole, molto vicini alla storia di Magic in The Moonlight.

E un altro cliché è la critica, che si spezza radicalmente a metà di fronte ai film di Allen: banalità o semplicità?

MAGIC IN THE MOONLIGHT

Probabilmente Magic in The Moonlight è entrambe le cose. Nell’intento dell’autore una leggera commedia romantica, che durante lo sviluppo della trama mostra sempre più le accortezze di un regista che non lascia nulla al caso, dove le parole vanno a riempire gli spazi intenzionalmente vuoti della scena, per valorizzarle, per centralizzarle, dargli un senso.

Una regia di campi e controcampi, campi medi, totali e primi piani, su uno sfondo magico (l’aggettivo calza a pennello) quasi fatato ed etereo, in una Provenza dislocata nello spazio e nel tempo: uno scenario che ha ben poco di realistico, che crea un piacevole contrasto con le parole di razionalità e pragmatismo del protagonista. Una fotografia eccelsa, affidata al genio di Darius Kondji, richiama i film degli anni Trenta, con atmosfere calde e nostalgiche del sole in tramonto sul mare, sfocate rispetto ai protagonisti che passeggiano sulla costa nella loro Alfa Romeo dando l’impressione di essere loro fermi e il mondo a girargli intorno.

Una poesia visiva da due soldi, ma quante volte lo è stato il cinema classico?  Sarebbe, quindi, da definirsi sciatto? E forse Magic in The Moonlight è classico proprio per l’evidente falsità della rappresentazione.

Il protagonista è vittima delle sue stesse certezze, ed è la prima volta che vediamo in un film di Allen un uomo che si arrende di fronte alla morte cadendo tra le braccia di Dio. Ma non sarebbe Woody Allen se questa arrendevolezza non lasciasse il tempo che trova, e subito il dubbio che aveva condotto alla fede mette in dubbio la fede stessa, ritornando sugli schemi di razionalità e cinismo che sono propri tanto al protagonista quanto al regista.

Ed è proprio lì la magia: di fronte alla realtà che viene nuovamente smascherata, nonostante la parentesi di felicità e spensieratezza che il lasciarsi cullare dall’inganno portava con sé, di fronte ad un mondo che appare ancora una volta senza speranza, col cessare di ogni illusione, l’amore resta. Non esiste la magia, ciò che sembra impossibile è anche impossibile. E nel contrasto tra ragione e sentimento, tra disillusione e allucinazione, l’unica cosa che congiunge i poli opposti degli universi dei due protagonisti è l’amore. Un amore apparentemente impossibile: ma è l’amore l’unica magia.

E chi, se non Woody Allen, poteva ancora una volta confutare l’amore come regola geometrica in un universo di razionalità?

Camilla Ruffo

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